lunedì 24 ottobre 2011

Rimettere debiti o peccati?

Di solito, chi sostiene che i testi evangelici dipendano da originali semitici (ebraici o aramaici) fa appello a una famosa richiesta del Padre Nostro che compare in modo leggermente diverso nelle due versioni matteana e lucana. Il primo evangelista dice "rimetti a noi i nostri debiti" (in 6:12), mentre Luca ha (in 11:4) "perdona a noi i nostri peccati". Ho riportato qui le traduzioni della CEI2008, ma devo dire che la resa di Lc 11:4 non è molto felice, perché il verbo greco è uguale a quello di Matteo (afiemi) e quindi sarebbe stato meglio mantenere "rimettere" in entrambi i casi (come faceva, ad esempio, la vecchia Diodati). Chi ritiene che dietro la preghiera ci fosse un originale semitico sostiene che la differenza fra i due Vangeli dipende da un aramaico hoba, termine che ha sia il significato di "debito" (quindi ofeilema, in Matteo) che quello di "peccato" (hamartia, in Luca).
Trovo, tuttavia, che questo modo di vedere le cose sia problematico. Prendo come esempio lo studio più recente in cui ho trovato sostenuta questa posizione, Sin: a History, pubblicato nel 2009 da Gary Anderson, professore di Antico Testamento all'Università di Notre Dame. Alle pagine 31-32 del volume, Anderson asserisce che "i termini che Matteo usa per descrivere la remissione dei peccati sarebbero parsi inusuali ad un parlante greco". In realtà, afiemi e ofeilema, usati in questo modo, non avrebbero potuto apparire affatto strani ad un greco. In un mio articolo, recentemente pubblicato sul Catholic Biblical Quarterly, mi pare di aver mostrato che tale terminologia compare in decreti di amnistia che i sovrani ellenistici di solito emanavano per festeggiare la loro ascesa al trono o altri momenti chiave di loro regni (ad esempio, vittorie militari). L'Egitto ci ha conservato diverse copie di questi documenti ufficiali, che avevano grande importanza perché cancellavano tutti i reati penali per l'anno corrente oltre ai debiti dovuti alla corona e perfino ai privati (si può leggere un esempio frammentario - ma molto simile alla fraseologia del Padre Nostro - qui e l'inzio di un altro editto del secondo secolo a.e.v. qui).
E' molto problematico, come fa Anderson, presupporre che il testo di Matteo debba avere un senso "religioso" (cioé, che debba riguardare i "peccati"), quando a un lettore antico doveva apparire immediatamente collegato alla sfera economica. Si tenga presente anche che l'accostamento a questi decreti reali ellenistici non può essere giudicato estemporaneo, perché tutta la preghiera, a partire dalla menzione della basileia ("regno"), sembra presentare Dio utilizzando i temi tipici della propaganda monarchica ellenistica. Nella prospettiva ideologica che troviamo in numerosi trattati, iscrizioni e proclami di vario genere i sovrani sono presentati spesso come garanti dell'ordine cosmico e investiti della regalità non solo in virtù della loro potenza militare, ma soprattutto per la responsabilità che esercitano nel proteggere i loro sudditi in momenti di difficoltà, fornendo loro pane in occasione di carestie o liberandoli da oneri finanziari quando questi diventano troppo pesanti. Credo che Anderson non possa invocare nemmeno Luca a sostegno della sua lettura, perché il terzo evangelista certamente "spiritualizza", ma lo fa ancora una volta utilizzando un termine (hamartia) che deriva (con probabile mediazione della LXX) dagli stessi decreti, laddove essi si riferiscono all'amnistia dei reati penali.
Mi pare, in conclusione, che non sia possible provare l'esistenza di un supposto sostrato semitico facendo ricorso al testo del Padre Nostro; questo ovviamento senza pregiudizio sulla questione della appartenenza del testo al Gesù storico o della lingua in cui lo stesso Gesù storico predicò.    

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