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sabato 17 dicembre 2011

Gesù storico e nazionalismo

Devo chiedere scusa ai lettori del blog, perché nell'ultimo periodo mi sono un po' sottratto alle mie responsabilità. Purtroppo, un viaggio in America (fra l'altro, per il meeting della SBL fino a San Francisco) e un invito a parlare nella sede di Brescia dell'Università Cattolica mi hanno distratto più di quanto avevo previsto.
A proposito dell'ultimo impegno, devo dire che è stato molto interessante trovarmi a parlare della ricerca sul Gesù storico con persone simpatiche e intelligenti. Tanto per non perdere il filo del discorso, ho pensato di riproporre qui alcune delle riflessioni che ho svolto circa due settimane fa.
Inizierei da una serie di pensieri che mi sono stati sollecitati dalla lettura (tuttora in corso) del più recente libro di Halvor Moxnes, famoso studioso norvegese, che è stata una delle cose più notevoli che ho comprato in California. Il titolo del volume è "Jesus and the Rise of Nationalism. A New Quest for the Nineteenth Century Historical Jesus (Gesù e l'ascesa del nazionalismo. Una nuova ricerca sul Gesù storico del diciannovesimo secolo)". In questo lavoro, Moxnes riprende il progetto di Albert Schweitzer di tracciare una storia della ricerca sul Gesù storico nell'Ottocento. Mentre il lavoro di Schweitzer rimane una pietra miliare difficilmente superabile in completezza, Moxnes ha avvertito una certa "zona d'ombra" che caratterizza l'approccio del geniale esegeta tedesco. In effetti, Schweitzer è implacabile nell'analizzare i vari autori e nel mostrare come infallibilmente i loro "Gesù storici" siano i "gemelli siamesi" delle loro rispettive opinioni teologiche, ma al tempo stesso questo acume viene meno quando si tratta di svelare le motivazioni sociali, politiche e, alla fine, ideologiche che muovono l'intera ricerca (molto probabilmente anche a causa dell'impostazione idealista che è tipica di Schweitzer).
Moxnes si assume l'incarico di "completare" quanto fatto da Schweitzer e di mostrare come la ricerca europea ottocentesca sul Gesù storico sia strettamente legata all'ascesa di fermenti socio-culturali quali il nazionalismo o il colonialismo imperialista. In questo senso, l'opera stessa di Schweitzer offre una testimonianza evidentissima. Si considerino le prime due frasi dell'edizione del 1906 della Storia della ricerca sulla vita di Gesù: "La teologia tedesca risalterà come un grande, un unico fenomeno nella vita mentale e spirituale del nostro tempo. Perché in nessun altro luogo, se non nel temperamento tedesco si può trovare, allo stesso grado di perfezione, il complesso vivente di condizioni e fattori - di pensiero filosofico, acume critico, percezione storica e sentimento religioso - senza i quali nessuna teologia profonda è possibile". In questa prospettiva, anche il fatto che Schweitzer indichi l'insuccesso di questa titanica impresa teologico-storica può ben essere visto come una profezia della enorme crisi (non solo teologica), che di lì a poco travolgerà la Germania e, con essa, l'Europa intera.
Si vede bene come il volume di Moxnes abbia molto da offrire. Di mio, vorrei aggiungere che, oltre ai fenomeni indicati dallo studioso norvegese, l'Ottocento nord-europeo mi sembra anche caratterizzato da un'ascesa dell'individualismo e da una progressiva secolarizzazione, che portava al distacco delle società civili dal controllo ecclesiastico. Se facciamo un salto cronologico fino ai giorni nostri, è interessante vedere che la ricerca sul Gesù storico resta viva ormai solo negli USA, dove nazionalismo, imperialismo, individualismo e progressiva secolarizzazione sono tutti fattori ben presenti. In più (se mi si passa un'ipotesi ardita), quel poco di ricerca rimasta in Europa viene fatta, oggi, per lo più in Italia e Spagna: qui credo si possa dire che la secolarizzazione appare essere l'elemento determinante.

martedì 13 settembre 2011

James Crossley I: Gesu' ebreo ... ma non cosi' ebreo


L'ultimo numero di "The Bible and Critical Theory" e' dedicato all'interessante e scottante tema della "Biblical Politics (Politica biblica)", da intendersi, come detto nella nota editoriale, come l'intersezione fra la politica e lo studio della Bibbia a vari livelli. Mi pare giusto spendere due parole sul breve contributo di James Crossley dell'universita' di Sheffield. Il suo lavoro piu' recente si concentra sull'analisi dell'ideologia che sottende lo studio accademico della Bibbia e tre anni fa Crossley ha pubblicato un libro, "Jesus in an Age of Terror: Scholarly Projects for a New American Century (Gesu' in un'epoca di terrore(/terrorismo): progetti accademici per un nuovo secolo americano)", che ha suscitato alcuni dibattiti e significative prese di posizione.
Il contributo di cui si parla qui ha come titolo "The Multicultural Christ. Jesus the Jew and the New Perspective on Paul in an Age of Neoliberalism (Il Cristo multiculturale. Gesu' ebreo e la Nuova Prospettiva su Paolo in un'epoca di neoliberismo)". Lo stile di Crossley e' spesso troppo stringato e puo' risultare oscuro per chi non abbia una conoscenza piu' che aggiornata della bibliografia accademica: tuttavia, dal momento che i temi esposti qui (e che sono poi gli stessi del libro che ho menzionato sopra) sono estremamente importanti, vale la pena di riprenderli e di esaminarli criticamente.
La prima questione significativa e' quella del Gesu' ebreo, vale a dire del riconoscimento dell'ebraicita' del Gesu' storico, un dato che si puo' dire ormai accolto da una larghissima maggioranza dei ricercatori. Questo riconoscimento segna anche una grandissima novita' della ricerca posteriore agli anni '70 del secolo scorso rispetto ai secoli che l'avevano preceduta. Crossley connette il successo di questa novita' storiografica (oltre che al senso di colpa cristiano per il genocidio perpetrato dai nazisti) con il clima di multiculturalismo e neoliberismo che ha caratterizzato gli ultimi decenni in Europa occidentale e Nord America. Proprio in questo clima culturale diventa possibile comprendere, secondo Crossley, come mai l'affermazione programmatica di un Gesu' storico "ebreo" si traduca, alla prova dei fatti nella maggioranza dei lavori di studiosi cristiani, nella rappresentazione di un Gesu' che in fondo non e' poi "cosi' tanto ebreo". Crossley pone in parallelo questo fenomeno con il discorso multiculturale sull'Islam, che in genere viene dichiarato "accettabile", ma solo in quelle versioni che vengono giudicate, dal punto di vista occidentale, "vere" o "spirituali".
Trovo la tesi di Crossley (almeno per quanto concerne il Gesu' ebreo) assai convincente e basta prendere in mano uno qualsiasi dei libri dedicati all'argomento per rendersene conto. Per esempio, l'opus magnum di J.P. Meier, che e' ormai avviato a raggiungere dimensioni enciclopediche e che e' probabilmente l'opera piu' nota anche al pubblico di lingua italiana. Il titolo stesso ("Un ebreo marginale") basta a chiarire quanto sostenuto da Crossley: anche per Meier il Gesu' storico deve essere prima di tutto un ebreo, ma beninteso non un ebreo come i farisei o come un Flavio Giuseppe qualsiasi. Ecco quindi che torna utile il concetto di marginalita', che e' poi anche operativo a livello metodologico nel fondamentale (per Meier) criterio di discontinuita', per il quale vengono considerati "storici" proprio quegli elementi che differenziano Gesu' rispetto al giudaismo del suo tempo. E' chiaro che fare altrimenti sarebbe troppo problematico, perche' condurrebbe a mettere in forse il ruolo di Gesu' come fondatore di una nuova religione (distinta dal giudaismo) oppure quello di personaggio eccezionale e senza paralleli nella storia dell'umanita'.

venerdì 3 giugno 2011

Pagola e l'approssimazione storica a Gesu'


Un mio collega mi ha prestato l'edizione inglese di un libro dello spagnolo Jose' Pagola ("Jesus. An Historical Approximation"), chiedendomi di dare un'opinione critica alla casa editrice che ha curato la traduzione. Devo confessare che non avevo mai sentito parlare di Pagola e sono rimasto sbigottito nel vedere, quando ho googlato il nome dell'autore, che il libro ha generato unusuali polemiche in Spagna, fino ad arrivare al ritiro dalle librerie cattoliche e a una censura da parte della Conferenza episcopale spagnola (si puo' saperne di piu' qui): una prima conclusione e' che sto perdendo sempre piu' i miei collegamenti con l'altra sponda dell'oceano.
Leggendo poi il libro, devo confessare di non essere riuscito a comprendere appieno cosa possa avere scatenato una tale bufera. Anzitutto, il volume non e' intenzionalmente un contributo innovativo alla ricerca sul Gesu' storico, ma si presenta come una scelta, operata da Pagola, fra quanto e' stato prodotto da storici ed esegeti, soprattutto nord-americani, negli ultimi decenni. Inoltre, le scelte di Pagola sono molto chiaramente "moderate": non puo' mancare, per esempio, una nota che attacca il famigerato Jesus Seminar (p. 21, n. 15), liquidato come troppo radicale e sbilanciato, mentre il canovaccio stesso della "biografia" di Pagola e' preso di peso dal Vangelo di Marco (conseguentemente, tutti gli apocrifi sono accantonati come secondari e anche Q, benche' ne venga riconosciuto un ruolo fondamentale, non ha alcun peso nella ricostruzione). In sostanza, Pagola fornisce un ibrido di J.P.Meier e, data l'abbondante uso di temi tratti dal lavoro del Context Group, del libro sul Gesu' storico che avrebbe potuto scrivere uno come Jerry Neyrey (il che rende ancor piu' difficile capire i motivi delle critiche ricevute).
E' molto interessante vedere come Pagola stesso descrive il proprio lavoro: da un lato, l'autore intende perseguire un'oggettivita' quasi positivista fondata sull'utilizzo del metodo storico-critico, ma, allo stesso tempo, la sua opera ha anche un intento dichiaratamente apologetico, mostrare al lettore contemporaneo che Gesu' di Nazaret e' "il meglio che l'umanita' abbia mai prodotto (p. 15)". Il sentimento che anima questa seconda parte del lavoro di Pagola e' certamente sincero (lo testimoniano i numerosi passi in cui l'autore parla in modo vibrante della figura del Nazareno come liberatore di poveri e oppressi), ma riconciliarlo con l'accuratezza storica puo' essere un problema.
Basta un esempio, credo, a chiarire questo aspetto. Nel capitolo 8, Pagola parla del rapporto fra Gesu' e le donne e, coerentemente con la sua impostazione generale (e con le aspettative del lettore contemporaneo), deve dipingere un ritratto del Nazareno come grande emancipatore sullo sfondo di una societa' giudaica segnata dal piu' stretto e aberrante patriarcalismo. Per ottenere questo risultato, siccome i testi evangelici sono quanto meno ambigui sull'argomento, Pagola ricorre alla strategia non certo nuova di rendere il contesto il piu' fosco possibile. Ci viene quindi restituita un'immagine dell'Israele del primo secolo che sarebbe grottesca se non fosse tragicamente venata di orientalismo (donne che non possono uscire di casa, donne che devono girare totalmente velate...). E' molto difficile non vedere qui dell'anti-giudaismo, visto che fonti (come quelle dell'archivio di Babatha), in cui appaiono donne che godono di una notevole indipendenza legale e finanziaria, vengono sistematicamente ignorate, mentre fonti che hanno carattere prescrittivo vengono utilizzate senza alcun commento critico come descrittive.

mercoledì 4 maggio 2011

Cacciari (e un po' di Pesce)


Mi sono guardato, su indicazione di mia moglie, uno speciale programma, trasmesso su La7 poco prima di Pasqua, in cui si discuteva del famigerato film di Mel Gibson, "The Passion of Christ", che era stato presentato poco prima. Devo dire che sono rimasto alquanto soddisfatto della qualita' della discussione e dal fatto che, caso piu' unico che raro, in un programma televisivo italiano dedicato al Nuovo Testamento era stato invitato anche uno studioso che si occupa direttamente del tema senza alcuna affiliazione religiosa (Mauro Pesce). Se non avete avuto modo di vederlo vale la pena di spenderci un'oretta (si puo' vedere in streaming qui), magari anche meno se vi fate un favore e saltate le parti in cui parla Erri De Luca.
Sono rimasto colpito dall'intervento di Massimo Cacciari, che non leggevo ne' sentivo parlare da un bel po' di tempo. Il filosofo/politico ha cominciato dicendo che il film, pur nella sua miseria teologica, non fa che riproporre una tradizione, che appare "gia' nel '500" per esempio nei dipinti di Grunewald, della passione di Gesu' rappresentata con tratti di violenza e sofferenza ipertrofiche. A questa tradizione si connetterebbero, in un modo che non mi e' parso troppo chiaro, le due grandi novita' del cristianesimo, che sarebbero, secondo Cacciari, il comandamento di amare i propri nemici e il fatto che nella persona del Cristo il divino su unirebbe all'umano fino all'inabissamento estremo della morte.
Nella sua risposta, Pesce fa notare a Cacciari che nei racconti evangelici le torture inflitte a Gesu' sono appena accennate, senza l'enfasi morbosa di Grunewald o Gibson, e soprattutto che la morte e' presentata non come un momento assoluto e isolato, ma come l'esito di azioni intraprese da Gesu'. Sbigottito, sento che Cacciari risponde dicendo che la lettura di Pesce non sarebbe legittima perche' fuori della "tradizione"!
Ora, da agnostico quale sono quando si parla del "Gesu' storico", anche a me, per vari motivi e nonostante la stima per lo studioso, riesce difficile accettare la proposta di ricostruzione offerta da Pesce, ma come si puo' fare obiezione sulla base della "tradizione"? E poi subito dopo aver indicato come "tradizione" l'immagine di Grunewald, che, come fa notare Alberto Melloni, sarebbe parsa una bestemmia per tutti i primi mille anni di storia del cristianesimo!
In realta', non si puo' negare che tutte le ricostruzioni del "Gesu' storico" siano anche esercizi teologici, ma e' anche vero che quella offerta da Pesce ha almeno la virtu' di essere aderente a quanto dicono i testi.
Basta guardare alla questione dell'amore per i nemici, che (proprio perche' e' veramente, questo si', un comandamento rivoluzionario) viene gia' "ammorbidita" all'interno dello stesso "discorso della montagna" attraverso l'accostamento della molto ambigua "regola d'oro". Come fa notare molto bene Luz nel suo commento a Matteo, i buoni cristiani tedeschi d'epoca tardo-medievale o rinascimentale, dopo aver assistito a una delle splendide Passioni messe in scena nella loro cittadina (o dopo aver contemplato un po' la crocifissione di Grunewald), andavano spesso e volentieri a sfogare il loro amore ammazzando qualcuno degli Ebrei che abitavano li' vicino.
Ho l'idea un po' maliziosa che Cacciari abbia ragionato troppo da filosofo (e da filosofo italiano, per cui la filosofia tende a coincidere con la storia della filosofia): in pratica, non solo l'apice del pensiero umano sarebbe coinciso con il periodo storico su cui Cacciari e' specializzato, ma, in questo caso, anche l'essenza del cristianesimo si sarebbe manifestata in una arco che va probabilmente da Schleiermacher a Harnack o giu' di li'.

domenica 1 maggio 2011

Tirare per la giacchetta il semitico


In un post recente sul suo blog, padre Scalese offre ancora una volta alcune osservazioni interessanti sulla nuova traduzione CEI della Bibbia. Vorrei fare alcune considerazioni sul punto 3, che riguarda piu' l'interpretazione che la traduzione di due passi chiave della Passione secondo Matteo.
Il primo versetto preso in considerazione e' Mt 26:28 in cui l'espressione greca "peri polloi" viene intesa come riferita a tutta l'umanita' (per cui viene versato il sangue di Gesu'), in forza della costatazione che "tutti gli esegeti ci assicurano che 'per molti' e' in realta' un semitismo che significa in realta' 'per tutti'" (parole di Scalese). Qui e' opportuno correggere padre Scalese, perche' non e' vero che tutti gli esegeti sostengono questa posizione: per esempio, Luz, che e' solo il piu' recente che ho letto, non ritiene l'espressione un semitismo e non pensa che significhi "per tutti". Lo stesso Jeremias, che e' stato uno degli iniziatori della via "semitica" e che prediligeva queste retroversioni, in quanto casualmente finivano sempre per "dimostrare" la correttezza delle sue esegesi (spesso e volentieri di chiaro stampo anti-giudaico), ammette che in ebraico o aramaico le espressioni equivalenti qualche volta possono voler dire "tutti", ma che questa ovviamente non puo' essere la regola.
Ma allora come arriviamo alla interpretazione "per tutti"? Vale la pena di dare ancora un'occhiata a Jeremias: anche per lui la soluzione non e' linguistica, ma dipende dal fatto che, secondo lui, Mt 26:26-28 dipenderebbe da Is 53:11-12, in cui ci viene detto che il servo sofferente ha portato il peccato di "molti". Non e' il caso di riprendere la questione dei rapporti fra questo passo d'Isaia (molto importante per i cristiani, perche' e' praticamente l'unico della Bibbia ebraica in cui forse si parla di espiazione dei peccati ad opera di un Messia sofferente) e Mt 26:26-28: la connessione e' molto tenue, visto che praticamente nessuna parola identica si trova nei due testi.
Tuttavia, anche accettando il legame suggerito da Jeremias, e' paradossale vedere come proprio questo offra un argomento molto forte contro l'esegesi "semitica". Di Is 53:11-12 possediamo una traduzione greca (quella dei Settanta) e vale la pena di domandarsi: se l'ebraico "rabbim" aveva proprio questo chiaro significato di "tutti", come mai i traduttori, che non brillavano certo per il loro letteralismo, l'hanno tradotto per ben tre volte nello spazio di due versi con "polloi"?
E' interessante domandarsi quale sia il supporto ideologico di queste esegesi fondate sulle retroversioni semitiche, dal momento che il loro valore storico e' tanto scarso. Ho formulato tre ipotesi provvisorie.
Anzitutto, discutendo della cosa con un collega, lui mi faceva notare che un peso notevole deve avere ancora l'idea che l'ebraico sia una "lingua divina". In secondo luogo, ritornare all'originale semitico e' un po' parte dell'utopico tentativo di tornare al Gesu' storico (combinato con il "dogma", secondo il quale Gesu' avrebbe parlato solo aramaico). Infine, l'impressione piu' sgradevole, ma dalla quale e' purtroppo difficile liberarsi quando si leggono esegesi come quelle di Jeremias, e' che si tratti di un'altra forma di supersessionismo. Come i cristiani si appropriano della Bibbia degli ebrei, cosi' possono fare anche con la loro lingua, dimostrando che gli ebrei non solo non sono stati capaci di capire il "vero" significato dei libri che consideravano sacri, ma anche della lingua stessa in cui erano scritti.

venerdì 21 gennaio 2011

Tradizioni e invenzioni




Alcuni giorni fa, sul blog di Sandro Magister, ho trovato questo intervento su questioni liturgiche tenuto dal vescovo Athanasius Schneider. Il particolare, minore ma, credo, significativo, si legge verso la fine quando Schneider si scaglia contro abusi come quello della "celebrazione del Sacrificio Eucaristico nella modalita' di un cerchio chiuso in cui sacerdote e popolo continuamente si guardano vicendevolmente in faccia". Questa pratica, sempre secondo il vescovo, andrebbe rigettata (per tornare al prete che da' le spalle ai fedeli), perche' "contraddice la pratica che Gesu' stesso e i Suoi Apostoli hanno osservato nella preghiera pubblica sia nel tempio sia nella sinagoga".
L'invenzione di tradizioni e' affare serio e basta leggersi un po' di Ireneo o di Tertulliano per capire che quei grandi avevano ben chiaro come l'operazione possa funzionare solo se fondata su motivazioni apodittiche e assolute (anche cosi', comunque, i rischi ci sono, come dimostra la vicenda personale di Tertulliano). Ora, i tempi sono un po' cambiati e certe strategie possono anche non funzionare piu' cosi' bene (in piu', nel caso specifico, Schneider ha il problema che quella che lui vorrebbe chimare "tradizione" indiscussa in realta' e' stata smentita dagli ultimi tre o quattro Papi, che della stessa dovrebbero essere i sommi custodi).

A questo punto, che fa Schneider? La butta sul piano storico, che dovrebbe venire in soccorso della teologia in difficolta'. Questa e' la pratica osservata da Gesu' stesso (e dagli apostoli)?
E' difficile capire come Schneider giunga a questa conclusione riguardo al tempio di Gerusalemme: comunque, pare che l'altare fosse la centro di un cortile e quindi non sarebbe peregrino immaginare che i partecipanti ai riti stessero in cerchio. Per fortuna, siamo messi meglio per quanto concerne le sinagoghe, per cui abbiamo numerose testimonianze archeologiche. Per esser breve, prendo solo due esempi. La prima foto di questo post e' uno scorcio della bellissima sinagoga affrescata di Dura Europos (III secolo): l'edificio ha una panca di pietra che corre lungo tutti e quattro i muri. E' lecito concludere che i fedeli stessero in cerchio. La seconda foto e' quella della sinagoga di Gamla (forse del I secolo avanti la nostra era), che e' probabilmente la sinagoga piu' antica scavata in Terra d'Israele fino ad oggi. Come si vede, la sala ha quattro gradoni che fungevano da panche e corrono lungo tutti i lati: la conclusione e' la medesima.
Non voglio affermare che questa fosse la struttura di tutte le sinagoghe al tempo di Gesu': basta sfogliare il voluminoso libro di Lee Levine, "The Ancient Synagogue", per vedere quanto fosse grande la varieta'. In piu' ci dovevano essere panche di legno o tappeti su cui la gente si sedeva o accovacciava e che non si sono conservati.
Il punto e' che una ricerca storica appena un po' seria non puo' che problematizzare l'incauta affermazione di Schneider. Sarebbe opportuno limitarsi a dire che la liturgia va fatta in un certo modo perche', per rivelazione, si sa che questa e' "l'unica, autentica pratica" e smetterla di torturare la storia per farla entrare nel letto di Procuste di quella che puo' essere solo teologia.

martedì 21 dicembre 2010

Segni messianici II


Pochi giorni fa ho scritto su di un mio incontro con Mt 11:2-6 in occasione di un'omelia. Subito dopo, mi sono imbattuto in questo post, dedicato allo stesso passo evangelico, sul blog "The Sacred Page" di tre professori cattolici americani. Il post e' stato scritto da Michael Barber, professore di teologia, Scrittura e pensiero cattolico all'universita' cattolica "Giovanni Paolo il grande" di San Diego.
Molto correttamente, Barber confronta il brano di Matteo con 4Q521, uno dei molti frammenti ebraici ritrovati nella quarta grotta di Qumran. Il testo, assai lacunoso, contiene un passo, molto famoso, che viene qualche volta anche indicato con il titolo di "Apocalisse messianica". Si tratta di una profezia sugli eventi che caratterizzeranno l'avvento del Messia: il dato notevole e' che l'elenco di questi prodigi messianici e' praticamente uguale a quello che si legge in Matteo 11. Ovviamente, cio' non e' casuale, ma dovuto al fatto che entrambi i testi combinano allo stesso modo due passi del profeta Isaia, tratti dai capitoli 35 e 61. Una dipendenza diretta sembra difficile, ma di certo si puo' dire che questo tipo di descrizione del Messia e delle sue attivita' circolava negli ambienti ebraici al tempo di Gesu'
Quello che mi lascia un po' perplesso e' la conseguenza che Barber trae da queste osservazioni: anche gli studiosi piu' scettici dovrebbero ammettere che la possibilita' dell'autenticita' gesuana di questi versetti e' alta. In che modo 4Q521 rafforzerebbe questa attribuzione al Gesu' storico? Barber cita il famoso commento a Matteo di Davies e Allison quale esempio di un approccio scettico. Ho voluto dare un'occhiata all'argomentazione di Davies e Allison, perche' in effetti il loro commentario e' davvero notevole (e' stato anche in gara fino all'ultimo per essere scelto come testo base per il mio corso primaverile).
Davies e Allison, alle pagine indicate da Barber, in effetti sostengono l'autenticita' delle parole di Gesu', ma ci sono due osservazioni da fare. Primo, i due non citano mai 4Q521 (il commentario e' del 1988 e io ho l'impressione - ma non ho controllato - che il frammento non fosse stato ancora pubblicato all'epoca). Secondo, uno dei motivi che induce Davies e Allison a pensare che le parole di Matteo 11 derivino dal Gesu' storico e' proprio il fatto che "stranamente" Gesu' sceglie di descrivere il Messia usando Isaia 35+61 ("perche' non ha scelto una profezia piu' mosaica"?). Davies e Allison hanno impiegato qui il criterio della discontinuita' (qualcosa puo' derivare dal Gesu' storico solo quando non puo' essere stato prodotto dall'ambiente giudaico o dalle comunita' cristiane primitive), ma Barber non si e' accorto che il criterio poteva funzionare solo quando non si sapeva nulla di 4Q521! Il frammento di Qumran, lungi dal rafforzare la storicita' di Mt 11:2-6, e' una prova fortissima contro di essa.

martedì 30 novembre 2010

Moxnes vs. Craffert in Atlanta



L'amico Johannes Weiss ha un post, ispirato da Loren Rosson, in cui accosta due studiosi che hanno offerto importanti contributi alla ricerca recente sul Gesu' storico, Dale Allison e Pieter Craffert. L'analisi di Weiss, che soppesa finemente somiglianze e differenze, mi ha fatto ricordare di un confronto, di cui sono stato testimone alcuni giorni fa al convengo annuale della SBL, fra lo stesso Craffert e Halvor Moxnes, studioso norvegese che offre, a mio parere, osservazioni mai scontate.
Il tutto si e' svolto all'interno di un panel in cui Moxnes anticipava i temi di un suo libro di prossima uscita dedicato alla ricerca sul Gesu' storico nel XIX secolo: si tratta, da quel che si e' potuto capire, di una rivisitazione della famosa analisi di Albert Schweitzer, ma con una piu' pronunciata attenzione per i temi (soprattutto socio-politici) che non erano molto nelle corde del professore di Strasburgo. Craffert era il respondent e, come c'era da aspettarsi, il suo intervento ha ripreso molti elementi che si trovano nella sezione metodologica del suo ormai famoso libro su Gesu' interpretato come sciamano della Galilea. Secondo Craffert, tanto la ricerca positivista storico-critica (che approda ad un Gesu' indistinguibile dal profilo intelletuale e teologico del ricercatore) quanto quella post-moderna (che insiste, invece, su di un Gesu' "altro", diverso, come in molto del lavoro di Moxnes) non sarebbero che due facce di uno stesso etnocentrismo e di un stesso imperialismo culturale. Devo dire che mi ha fatto onestamente una certa impressione vedere uno studioso di origine afrikaner (qualunque sia il suo passato o le sue correnti opinioni politiche) accusare qualcun altro di etnocentrismo o imperialismo.
Sollecitato dalla platea, Moxnes, che sembrava un po' restio a rispondere, ha fatto notare come il Gesu' "queer" sia quanto di piu' lontano si possa immaginare da un paradigma dominante a livello culturale (anzi, avrei detto io, etnocentrismo e imperialismo si adatterebbero meglio al modello "sciamanico", tenuto conto della genealogia ideologica del modello stesso e del suo "creatore", Mircea Eliade). In un certo senso, Moxnes sente la responsabilita' e il dovere di presentare questa immagine alternativa e sovversiva di Gesu' di Nazaret. Ovviamente, Craffert ha domandato se, a questo punto, abbia piu' senso parlare di una "oggettivita'" e, ovviamente, Moxnes ha risposto che non esiste alcuna oggettivita', ma tutti portiamo nella ricerca il peso del nostro bagaglio intellettuale ed esperienziale.
Tutto sommato, anche se nel quadro un po' frammentario tipico delle discussioni alla SBL, una conversazione interessante.

lunedì 27 settembre 2010

James Dunn e le tradizioni orali


Ho pensato di rileggere con gli studenti del mio seminario su Q alcune pagine di James Dunn sul ruolo che l'oralita' puo' aver avuto nella trasmissione delle tradizioni su Gesu'. Mi e' parsa una buona idea sia perche' ritengo sia giusto pensare anche alle tradizioni orali quando si studia Q sia perche' Dunn (che ha avuto un ruolo importante nella formazione della cosiddetta "Nuova prospettiva su Paolo") e' una voce molto influente, soprattutto presso gli studiosi conservatori. Anche in Italia, il lavoro di Dunn ha avuto una certa diffusione un po' perche' e' stato presentato da alcuni come un antidoto alla "eresia" di Augias-Pesce e un po' perche' il suo ponderoso Jesus Remembered (da cui ho preso le pagine in questione) e' stato quasi subito tradotto da Paideia.
Devo confessare che gli argomenti di Dunn mi hanno lasciato ancora una volta poco convinto. Vi do qui di seguito un esempio del suo modo di argomentare e mi riservo qualche considerazione piu' generale per un prossimo post.
Dunn si fonda su un modello di trasmissione orale per il quale un racconto viene ripetuto con la massima liberta' di variazione nei particolari, eccetto che per un "nocciolo" che invece viene tramandato con estrema precisione, perche' si e' "impresso" nella memoria. Il primo esempio che Dunn offre e' il famoso racconto della guarigione del servo del centurione, che si trova in due passi paralleli in Mt 8:5-13 e Lc 7:1-10 e viene solitamenta considerato parte della fonte Q. Se si leggono i due racconti in "sinossi" e' facile vedere cosa vuole mostrare Dunn: molti particolari sono diversi (in una versione il centurione va da Gesu', nell'altra no) e i due evangelisti sembrano aver inserito pezzi per sottolineare aspetti che interessavano loro, ma un nocciolo rimane invariato (il breve "botta e risposta" fra il centurione e Gesu'). La conclusione e' che i due racconti non dipendono da una fonte letteraria, ma Matteo e Luca li hanno presi dalla tradizione orale delle loro comunita' oppure li hanno riscritti "in oral mode" (mi dispiace di non avere sotto mano una traduzione italiana del libro perche' mi piacerebbe vedere come e' stata resa questa espressione). Evidentemente, le parole scambiate fra Gesu' e il centurione erano rimaste "impresse" nella memoria. L'analisi non fa una grinza, ma la mia domanda e': utilizzando questo modello "orale" si sono forse raggiunti dei risultati diversi da quelli che avrebbe potuto produrre, ad esempio, Bultmann utilizzando la piu' tradizionale e letteraria storia delle forme? Mi sembra proprio di no.
Naturalmente, la cosa si fa ancora piu' complicata quando si passa a leggere la versione della stessa storia che si trova in Gv 4:46-54. Anche qui ci sono differenze (il centurione, ad esempio, e' sparito) e anche questo racconto e' attribuito da Dunn alla tradizione orale, ma dove e' andato a finire il "nocciolo" che si era tanto vividamente impresso nella memoria delle prime comunita'?

mercoledì 25 agosto 2010

Il "regno di Dio" in Giovanni


Devo una risposta ad un lettore che la settimana scorsa mi ha posto un'importante domanda su una delle questioni piu' centrali dello studio del Nuovo Testamento. Si tratta della famosa espressione "regno di Dio" che appare spesso in diversi contesti nel vangeli sinottici, al punto che la maggioranza degli storici la considera una delle poche frasi che puo' essere attribuita con una buona dose di sicurezza al Gesu' storico. E' curioso vedere che, proprio su questo punto, esiste una differenza radicale fra i Sinottici e il Vangelo di Giovanni: mentre nei tre "regno di Dio" appare, si potrebbe dire, in tutte le salse, Giovanni usa l'espressione molto di rado (solo tre volte, faceva notare l'attento lettore) e in contesti del tutto particolari.
La risposta della maggioranza degli studiosi puo' apparire quasi banale: per quasi tutti questa e' una conferma del fatto che Giovanni non ha nessuna attendibilita' quando si tratta di ricostruire l'immagine storica di Gesu'. In effetti, per motivi come questo Giovanni e' stato tradizionalmente marginalizzato nella ricerca moderna, in particolare quando si tratta di ricostruire le parole e il messaggio del Nazareno.
Mi pare che su questo punto ci sia poco da aggiungere, ma la questione ha anche un altro aspetto interessante: come mai Giovanni annulla quasi completamente uno degli elementi fondamentali nelle tradizioni riguardanti Gesu'? Penso che la chiave di comprensione sia da cercare nel valore politico che inevitabilmente era associato con il "regno". Gia' Giovanni lo dice chiaramente, a dispetto della sua proverbiale ambiguita'. Quando Gesu' viene interrogato da Pilato, una delle poche cose molto chiare che il Nazareno dice al governatore e' che il suo "regno" non costituisce comunque una minaccia per l'impero (Gv 18:35-36). Personalmente, io sono abbastanza convinto che il Vangelo di Giovanni sia stato scritto nel secondo secolo inoltrato e queste osservazioni confermano la mia impressione. In questo periodo (e in particolare dopo la rivolta giudaica del 132-135) i cristiani devono evitare le persecuzioni e, nello stesso tempo, trovare un modo di farsi accettare nel mondo greco-romano: non e' un caso che anche gli apologisti, proprio nello stesso periodo storico, non facciano quasi menzione della predicazione di Gesu' sul "regno di Dio".

domenica 1 agosto 2010

Il copione di Gesu'


Mi devo scusare per la lunga assenza dal blog, ma sono in trasferta a Tel Aviv per impegni professionali di mia moglie e fino a oggi, oltre a lottare con il caldo afoso, non ho avuto molte possibilita' di collegarmi in rete. Mi perdoneranno i lettori se mi lascio andare un poco alla vanita' e do notizia di una pubblicazione in cui sono direttamente coinvolto. Si tratta di un articolo recentemente apparso sulla rivista brasiliana "Epoca", a firma di Humberto Maia jr.
Il pezzo e' in effetti la presentazione di un libro recente di L. Michael White, professore di storia delle origini cristiane all'Universita' del Texas, noto per numerosi interventi recenti, anche divulgativi e passati sulla televisione amricana, relativi alle vicende di Gesu' e delle prime comunita' cristiane. Il volume di White ha un titolo molto bello, "Scripting Jesus", che non e' facile rendere bene in italiano: "script" e', in inglese, il "copione" che viene redatto per fungere da linea-guida per una rappresentazione teatrale o un film. Scegliendo questo titolo, White ha voluto indicare che, secondo lui, gli evangelisti hanno operato come autori di "copioni" cinematografici, adattando la biografia di Gesu' alle diverse necessita' dei loro ascoltatori e all'obiettivo di diffondere la fede nella resurrezione del Cristo. E' facile vedere come White non aggiunga grandi novita' a una rappresentazione storica ben delineata, negli ultimi cento anni, dalla storia delle forme e dalla critica redazionale dei Vangeli canonici. La scelta astuta del titolo puo' dare l'impressione che White intenda i Vangeli piu' come "fiction" e "performance" che come biografie storiche, ma in realta' le sue opinioni sono molto piu' moderate e l'autore tiene a sottolineare che i testi evangelici dipendono da tradizioni orali trasmesse dai primissimi discepoli.
Chi scrive e' stato intervistato alcune settimane fa da Humberto Maia e infatti ci sono un paio di mie frasi disposte qua e la' nel corso dell'articolo: non si tratta di nulla di particolarmente esplosivo o innovativo, ma di osservazioni che ribadiscono punti gia' ben noti a chi abbia qualche esperienza di studi scientifici dei materiali biblici (ad esempio, sul carattere piu' apologetico che biografico dei Vangeli o sul fatto che ignoriamo i veri nomi degli autori dei canonici). Ho detto all'inizio che c'entra la vanita' personale, ma in questo caso non si tratta delle affermazioni che mi sono attribuite ne' semplicemente di vedersi indicato come un esperto di una materia a cui ho dedicato tanto tempo ed energie: piuttosto, mi fa una certa sensazione vedermi accostato a John Dominic Crossan. Questo si' e' qualcosa di cui mi posso vantare!

lunedì 19 luglio 2010

Le brache di Gesu'

Quello di oggi sarebbe un post grottesco (come il titolo) se, nella sua realta', non fosse un esempio della tragica influenza che possono avere le immagini del cosiddetto "Gesu' storico" che ci andiamo costruendo. Girellando come al solito sul web, mi e' capitato alcuni giorni fa di leggere un post di Steve Wells che parla di frasi tatuate sui testicoli di Gesu' (l'intento del ragionamento e' chiaramente derisorio e non so quanto riuscito, ma non mi voglio occupare di questo): in risposta alla sua riflessione, lo stesso Wells indicava un altro post, di Steven L. Anderson, pastore di una chiesa battista dell'Arizona e certamente non un esempio di liberalismo teologico.
Non voglio entrare nel merito della disputa fra Wells e Anderson, ma mi ha colpito la foga con cui quest'ultimo cerca di dimostrare che Gesu' portava delle brache (o delle mutande). E' chiaro che a spaventare il pastore non e' tanto l'idea oltraggiosa del tatuaggio collocato nella posizione di cui si diceva sopra quanto la possibilita' che qualcuno possa pensare che Gesu' non portasse pantaloni, come deve fare un uomo, ma una gonna (che, nella mente di Anderson, si confonde con le tuniche e i chitoni utilizzati dagli antichi).
I passi biblici presentati da Anderson possono o non possono convincere (francamente non mi sento di pronunciarmi sul fatto se Gesu' avesse o no delle mutande sotto la tunica), ma due argomenti mi hanno fatto riflettere. Uno e' tratto dalla descrizione erodotea (Anderson parla di piu' "storici", ma mi chiedo se ce ne siano altri) della battaglia delle Termopili in cui i Persiani hanno le brache, mentre gli Spartani, "omosessuali pervertiti", hanno gonne corte! E' interessante come in questo caso Anderson ribalti lo stereotipo (che c'e' gia' in Erodoto) per cui i Greci sono virili e i loro nemici orientali sono effeminati e quindi inferiori.
Il pezzo forte di Anderson arriva pero' quando il pastore presenta un cartello di un gabinetto come quello riportato qui a fianco e chiede ai suoi lettori se non riconoscono il "simbolo universale" per indicare uomo e donna. Questo "dice tutto"! In verita' dice tutto quello che abbiamo bisogno di sapere sul modo in cui ragiona Anderson, che estende, da buon imperialista, le sue idee a tutte le altre culture non solo sue contemporanee, ma anche vecchie di migliaia di anni.
Anderson se la prende con i "teologi" e perfino con gli "omosessuali sodomiti" come Michelangelo che hanno rappresentato Gesu' senza pantaloni, ma i suoi obiettivi polemici sono anche piu' scoperti: a un certo punto infila "omosessuali, preti cattolici (mi scuso della ridondanza [sic!]), chierici islamici e monaci buddisti"!
Non mi dilungo oltre, ma terrei questo post per la prossima volta in cui qualcuno mi parlera' di leggi "universali" e "naturali" o qualcuno mi dira' che la questione del Gesu' "ariano" dei nazisti e' ormai cosa del passato.

martedì 13 luglio 2010

Gesu' e' morto in croce?


Il titolo di questo post e' volutamente ambiguo, ma penso di dover dare notizia di una piccola discussione che ha avuto una certa risonanza sui blog biblici negli ultimi giorni. Uno studioso svedese, Gunnar Samuelsson, ha recentemente discusso una tesi di dottorato dal titolo "Crucifixion in Antiquity: an Inquiry into the Background of the New Testament Terminology of Crucifixion" ("Crocifissione nell'antichita': una ricerca sul retroterra della terminologia neotestamentaria della crocifissione"). In questo lavoro, come si desume da titolo, Samuelsson non sostiene che Gesu' non sia stato condannato e ucciso con la pena capitale romana, ma si occupa di indagare se la terminologia usata nel Nuovo Testamento (stauroo e altri vocaboli affini) corrisponda a quello che generalmente ci immaginiamo quando parliamo di "crocifissione" (i pali disposti in un certo modo, i condannati inchiodati al legno, l'agonia prolungata per un determinato tempo...). La conclusione di Samuelsson e' che i termini indicati sopra vengono usati, fino al primo secolo, in modo del tutto generico, per cui la traduzione "crocifissione" risulta essere una forzatura dovuta al modo in cui i cristiani si sono piu' tardi immaginati il supplizio di Gesu': al contrario, Samuelsson preferirebbe una versione piu' neutra, magari qualcosa come "appendere".
La cosa non sembra enormemente importante dal punto di vista scientifico (ma ci sono aspetti curiosi che non ho visto trattati on-line: per esempio, come la mettiamo con le traduzioni dei Testimoni di Geova), ma il blog "Evangelical Textual Criticism" ha riferito della risposta assai forte di un noto biblista greco, Chrys Caragounis. Questa contesa offre spunti interessanti se si vuole discutere di un argomento che ho gia' trattato, vale a dire della possibilita' di giungere ad una traduzione univoca e sicura, anche solo di un termine specifico come in questo caso. Samuelsson conclude la sua analisi sostanzialmente dichiarando l'impossibilita' di arrivare ad una risposta definitiva, mentre Caragounis sostiene che, siccome tutti i parlanti greco dal primo secolo fino ad oggi hanno sempre usato stauroo per indicare la "crocifissione", questo gli permette di concludere che il concetto che si trova nella sua mente stava anche in quella degli autori del Nuovo Testamento. A parte i risvolti talvolta grotteschi di questo ragionamento (il nazionalismo greco d'origine ottocentesca ne e' una radice importante, come quando Caragounis dice che i greci del ventesimo secolo comprendono meglio i classici degli svedesi), l'insostenibilita' e' evidente a qualunque lettore italiano che abbia studiato un po' di latino: basarsi sul significato contemporaneo delle parole per tradurre Tacito o Cicerone puo' essere un modo di procedere assai rischioso.
Aggiornamento: per chi fosse interessato a raccogliere maggiori informazioni sul lavoro di Samuelsson, si puo' visitare il sito appositamente predisposto qui.

domenica 4 luglio 2010

La demografia della Galilea al tempo di Gesu'


Ho letto sull'ultimo numero del Journal of Biblical Studies, probabilmente la piu' importante rivista accademica dedicata agli studi biblici, un articolo di Jonathan Reed, professore alla University of La Verne, dal titolo "Instability in Jesus' Galilee: a Demographic Perspective" ("Instabilita' nella Galilea di Gesu': una prospettiva demografica").
Questo contributo si inserisce in un dibattito particolarmente vivo in questi ultimi anni: la Galilea sotto il governo di Erode Antipa era una regione colpita da una terribile crisi socio-economica? E, di conseguenza, il movimento gesuano puo' essere spiegato come risposta a questo disagio?
Reed e' gia' intervenuto nella discussione con lavori importanti, ma questa volta volge l'attenzione in una direzione, quella della demografia, che era finora rimasta piuttosto trascurata, anche se negli ultimi anni sono fioriti gli studi demografici sul Mediterraneo nell'antichita'. La speranza di Reed e' quella di offrire alcuni dati che possano dare piu' solidita' ad un dibattito che sembra altrimenti bloccato fra due posizioni contrapposte ed incapaci di comunicare. Reed propone, con grande precisione, modelli demografici che sono stati messi a punto studiando i dati di altre epoche e comparandoli con quel poco che si puo' sapere sulla mortalita' e sull'aspettativa di vita nell'antichita': la situazione non era molto allegra e la Galilea del tempo di Gesu' non doveva fare eccezione. Si potrebbe obiettare che, proprio nel periodo del regno di Antipa, la Galilea vive un vero e proprio boom demografico, ma anche questo elemento viene interpretato da Reed nel senso dell'instabilita': la popolazione aumenta, ma soprattutto perche' vengono abitate le zone malsane (in particolare, quelle malariche sulle coste del lago) e le due "grandi" citta' di Sefforis e Tiberiade (nelle quali, tuttavia, la densita' di popolazione aumenta l'incidenza delle malattie mortali cosi' da richiedere un continuo afflusso di nuovi abitanti dai villaggi). In sostanza, Reed dipinge un ritratto a tinte fosche in cui l'elevata mortalita' e i continui spostamenti distruggono le strutture famigliari e perturbano gli equilibri sociali tradizionali.
L'articolo propone molti spunti interessanti, ma mi limito a una sola osservazione di metodo: chiaramente Reed propende per una Galilea in crisi, ma ancora una volta a essere determinante e' il modello che viene adottato nella lettura dei dati. Mi sembra che nulla vieti di leggerli in un senso opposto (ho, per caso, appena letto un articolo di Elio Lo Cascio, grande storico dell'economia antica, che utilizza l'urbanizzazione come indicatore di crescita economica): quella che per Reed e' instabilita' avrebbe benissimo potuto essere percepita come una situazione che offriva grandi opportunita' di successo e di promozione sociale.

giovedì 1 aprile 2010

Quando e' morto Gesu'?

Alcuni giorni fa ho letto sull'edizione on line della Biblical Archeological Review questo articolo di Jonathan Klawans, professore di Bibbia ebraica alla Boston University, dedicato al problema di stabilire se l'Ultima Cena fosse o meno una cena pasquale ebraica, tecnicamente un Seder. La questione si riallaccia a uno dei nodi classici della ricerca sul Gesu' storico, vale a dire capire l'esatta cronologia degli eventi della Passione. Infatti, i tre Vangeli sinottici e Giovanni danno due versioni radicalmente differenti. Secondo Marco, Gesu' avrebbe celebrato con i suoi discepoli una effettiva cena pasquale la notte precedente la sua morte, mentre il quarto Vangelo racconta che Gesu' sarebbe morto in croce il pomeriggio prima della cena rituale.
Gli Ebrei del tempo di Gesu' come quelli di oggi celebravano la Pasqua al primo giorno di luna piena di primavera: quando il Tempio ancora esisteva, il pomeriggio prima della cena (si ricordi che per il calendario liturgico ebraico il giorno, anche quello di Pasqua, comincia al tramonto del sole) gli agnelli che poi sarebbero stati consumati alla sera venivano immolati sull'altare del santuario. Decidere quale delle due versioni date dai Vangeli e' originale non e' problema da poco, perche' entrambe presentano problemi e si puo' sospettare che siano guidate da interessi teologici piuttosto che da un desiderio di fedelta' storica. Marco puo' aver trasformato il racconto dell'Ultima Cena in un Seder perche' i primi cristiani (tutti Ebrei) avevano associato la memoria della morte di Gesu' con la Pasqua ebraica e quindi avevano dato questo nuovo significato al rito della cena: inoltre, se si segue la cronologia di Marco si finisce per avere le autorita' ebraiche che si danno un gran daffare a processare e condannare Gesu' proprio nella giornata in cui si dovrebbe celebrare la loro festa religiosa piu' importante. Giovanni, d'altro canto, vuole dimostrare che la morte di Gesu' supera e rimpiazza tutti i sacrifici del Tempio e infatti fa morire Gesu' esattamente nel momento in cui gli agnelli venivano sgozzati.
Siccome esito molto a prendere una posizione sulla questione, ho trovato assai interessante quello che propone Mark Goodacre nel suo blog: e' possibile che nessuna delle due cronologie sia storicamente accurata, ma che Gesu' sia in effetti morto in prossimita' della Pasqua e che successivamente i suoi seguaci abbiano creato le due possibili associazioni per poter celebrare la sua memoria e esplicitare il senso teologico che loro davano alla sua Passione.

sabato 20 marzo 2010

Il valore del "queer Jesus"

Ultimamente mi sono molto interessato alle letture "queer" della figura di Gesu' e la settimana scorsa ho avuto modo di scambiare alcune opinioni sul tema con un collega blogger, che evidentemente e, secondo me, sbagliando considera questa linea di ricerca (cosi' come tutte le indagini moderne sul Gesu' storico) un'anticaglia piu' dannosa che altro.
Mi sembra giusto dire due parole sulla questione del "queer" per spiegare bene di che si tratta, visto che questo tipo di studi in Italia e' assai poco diffuso. "Queer" in inglese significa qualcosa come "strano" e tradizionalmente e' stato un termine impiegato per indicare soprattutto i comportamenti sessuali non "normali" o non socialmente riconosciuti e accettati. Con l'accrescersi della sensibilita' per questi temi negli ultimi due decenni, i "queer studies" si sono diffusi in tutti i settori dell'accademia: dalla letteratura alla storia, si trovano ovunque esempi di persone che, a motivo dei loro comportamenti non solo sessuali, sono marginalizzate, disprezzate o perseguitate perche' non farebbero quello che fa la maggioranza o non si adeguerebbero a quella pericolosissima fantasia che viene chiamata "legge naturale".
E' facile capire come Gesu' sia una personaggio "queer" per eccellenza (per esempio, dal punto di vista sessuale, non si sposa contravvenendo a quello che i suoi contemporanei consideravano addirittura un comandamento divino). Tuttavia, essere "queer" e' molto piu' che avere una morale sessuale "non ordinaria": Gesu', andando contro tutte le aspettative sociali del suo tempo, spinge i suoi discepoli ad abbandonare le loro famiglie o si associa a donne, ponendole perfino in posizioni chiave all'interno del suo movimento. La cosa disturba e infatti, alla prima occasione buona, le autorita' lo fanno fuori.
E' importante, credo, capire che in gioco c'e' una questione di potere, il potere di stabilire cosa deve essere definito "normale" e di sconfiggere i propri oppositori tacciandoli di "anormalita'". E' per questo motivo che, ad esempio, i sacerdoti cattolici che rimangono insolitamente celibi non sono "queer", perche' questa scelta garantisce loro una superiorita' "ontologica" sulle altre persone, come ha ricordato ancora di recente il loro capo. Al contrario, sono "queer", per esempio, gli omosessuali che, come ho visto notato molto acutamente su di un blog, si devono sentire rovesciare addosso ostilita' continua in numerosi discorsi pubblici, ma poi, quando si azzardano a rispondere in modo altrettanto sconclusionato, sono i soli a patirne immediatamente le conseguenze.

martedì 16 febbraio 2010

Le parole di Gesu' contro il Tempio

Di recente, su alcuni blog biblici, ho notato una baruffa riguardo alle tesi dei cosiddetti "mythicists" (tecnicamente, quelli che ritengono che Gesu' non sia mai esistito, ma si sia trattato semplicemente di un mito inventato da chi ha creato il cristianesimo). Ha iniziato James McGrath paragonando i "miticisti" con i "creazionisti" per la comune assenza di argomentazioni razionali: di recente, Neil Godfrey ha replicato sul suo blog prendendo in esame le tradizioni relative alla cosiddetta "cacciata dei mercanti dal Tempi", che molti considerano uno degli episodi della vita di Gesu' sicuramente storici.
Penso che Godfrey abbia abbastanza ragione nel contestare la sicurezza con cui viene espresso questo ultimo giudizio: il racconto dell'azione di Gesu' nel Tempio e' talmente intessuto di rimandi alla Bibbia ebraica che e' praticamente impossibile (come in molti altri casi: per esempio, quello del racconto della morte in croce) arrivare a determinare se le cose siano andate veramente cosi' o se gli autori dei Vangeli abbiano modificato a piacimento per adattare le vicende alle profezie.
Sono pero' convinto che le cose stiano diversamente per quanto riguarda le famose parole dette da Gesu' sul Tempio. I Sinottici mettono la frase sulla bocca di falsi testimoni che accusano Gesu' davanti al Sinedrio (Mc 14:58 e Mt 26:61, mentre Luca ha spostato il tutto in At 6:14): "Io distruggero' questo Tempio fatto da mani d'uomo e in tre giorni ne costruiro' un altro non fatto da mani d'uomo". Giovanni ha pero' legato esplicitamente la frase con l'episodio della cacciata dei mercanti dal Tempio in 2:19 ("Distruggete questo Tempio e in tre giorni lo faro' risorgere"): in tutti i casi la menzione dei tre giorni e' di certo secondaria e serve a far avverare la profezia, altrimenti disattesa, con la resurrezione di Gesu' stesso. In realta', il fatto che Marco e seguaci abbiano attribuito l'accusa ai nemici di Gesu' ha, secondo me, un grosso valore storico: Gesu' doveva aver detto qualcosa di cui ci si vergognava un po', ma che non si poteva tacere perche' tutti l'avevano sentito. Direi che lo scenario piu' probabile prevede un Gesu' che profetizza la distruzione del Tempio (un po' come nel Vangelo di Tommaso 71) come segno escatologico e poi aggiunge che egli stesso o Dio con un intervento diretto l'avrebbero ricostruito. Visto che la cosa di fatto non si verifico' i redattori dei Vangeli hanno provveduto a sminuire l'imbarazzo attribuendo tutto a dei "falsi testimoni" e a normalizzare collegando la profezia con quello che, secondo loro, sarebbe successo al solo Gesu'.

giovedì 11 febbraio 2010

Gesu' e la sua frusta

Come molti sapranno il Vangelo di Giovanni contiene molti particolari sulla figura di Gesu' che non si trovano negli altri testi canonici: un caso curioso si puo' vedere alla fine del capitolo 2, quando Giovanni racconta l'episodio, presente anche nei Sinottici, della cosiddetta "cacciata dei mercanti dal Tempio" di Gerusalemme.
Al v. 15, dopo aver visto animali e cambiavalute nel santuario, Gesu' prende dei pezzi di corda e si fa una frusta con cui caccia via tutti in un impeto di indignazione. E' interessante notare che il testo greco chiama questa frusta phragellion, un termine che e' un prestito dal latino e deriva da flagellum. Ovviamente, e' lo stesso vocabolo che Marco e Matteo impiegano per indicare la tortura a cui i Romani sottopongono Gesu' prima di metterlo a morte. Spesso non ci si fa caso, ma paradossalmente il Cristo, di cui siamo abituati a compiangere le sofferenze, brandisce qui contro altri (con buona pace di Mel Gibson e dei suoi sanguinari ammiratori) quegli stessi "strumenti" che saranno poi disumanamente utilizzati contro di lui.
Un Gesu' violento doveva creare problemi anche ai primi lettori del Vangelo e in effetti i due piu' antichi papiri (P66 e P75) che riportano il testo di Giovanni hanno un'interessante variante: prima della "frusta" viene inserita la particella hos che vuol dire "come". Il risultato e' che Gesu' non si sarebbe fatto proprio una frusta, ma "qualcosa di simile ad una frusta".
I tentativi di soluzione moderni sono piu' sottili; in un articolo (dal titolo bellissimo, ma per me intraducibile, "The Messianic Whippersnapper") pubblicato l'anno scorso sul Journal of Biblical Literature, N. Clayton Croy sostiene che l'oggetto della cacciata (in greco pantas, maschile) sarebbero solo gli animali che seguono come apposizione (pecore e buoi, neutro e maschile): quindi una traduzione precisa sarebbe "scaccio' tutti fuori dal Tempio, sia le pecore che i buoi". La CEI ha evidentemente pensato che a essere fustigati siano anche esseri umani, perche' la traduzione e' ancora "scaccio' tutti fuori dal Tempio, con le pecore e i buoi".
Credo che la questione richieda ulteriori discussioni, ma nel frattempo si puo' dire che ne viene confermata la peculiarita' e difficolta' del Gesu' di Giovanni. Pochi giorni fa uno studente, che aveva problemi a comprendere come mai Gesu' si faccia sempre pregare per compiere miracoli che non gli costano niente, mi dice tra il serio e il faceto: "certo che questo qui e'proprio un jerk (non traduco per non creare ulteriore scandalo)!"

sabato 6 febbraio 2010

La rilevanza del Gesu' apocalittico

Da qualche giorno, sui blog biblici si discute abbastanza animatamente di un brevissimo articolo di Helen Bond dedicato alla rilevanza che avrebbe per il nostro mondo contemporaneo la figura di un Gesu' tutto preso dall'attesa della fine del mondo. Fino ad oggi, essendo stato molto occupato con le varie attivita' della scuola, non avevo avuto tempo nemmeno di leggere con calma il contributo di Bond, ma adesso mi pare giusto formulare qualche riflessione in merito.
Nel 1906 Albert Schweitzer, destinato poi a divenire famoso come filantropo, pubblico' un libro ("La storia della ricerca sulla vita di Gesu'") destinato a cambiare il modo di avvicinarsi al Gesu' storico: con questo volume Schweitzer metteva fine al periodo cosiddetto "liberale", nel quale Gesu' era inteso come un semplice maestro di etica, per sostenere che il Nazareno doveva essere pensato nel suo tempo, un periodo caratterizzato da una quasi fanatica attesa della vendetta divina contro tutte le ingiustizie e della fine del mondo. Da allora, la proposta di Schweitzer non ha piu' abbandonato la ricerca sul Gesu' storico e bisogna in effetti dire che negli ultimi tempi ha preso ancora piu' forza.
Bond evita ogni equivoco positivista e nota che ogni Gesu' storico e' lo specchio dei tempi in cui viene prodotto. Questo lo diceva gia' Schweitzer quando criticava gli studiosi che lo avevano preceduto per aver creato un Gesu' maestro di morale che andava benissimo all'Europa raffinata e imperialista di fine Ottocento: lo stesso vale anche per il Jesus Seminar che negli anni '80 diede vita al tanto vituperato Gesu' "cinico" (i membri cercavano un Nazareno non apocalittico per opporlo all'uso folle che veniva fatto da Reagan e seguaci delle attese escatologiche cristiane: purtroppo hanno fallito e gli esiti negativi sono sotto gli occhi di tutti). Secondo Bond, in conclusione, l'interesse di oggi per il Gesu' apocalittico dipenderebbe dal fatto che viviamo immersi in un contesto in cui la paura della distruzione del pianeta, soprattutto per lo scempio sconsiderato che si va facendo delle risorse naturali, e' all'ordine del giorno (e viene continuamente enfatizzata dalla televisione e dagli altri mezzi di comunicazione). Questa e' senz'altro una buona chiave di lettura, ma vale soprattutto per la nostra societa' occidentale, che in effetti puo' permettersi di nutrire queste preoccupazioni: comunque, ci sono anche studiosi che vengono da retroterra diversi (si pensi per esempio a chi si occupa di teologia della liberazione) e sono interessati al Gesu' apocalittico per altri motivi. In questo caso direi che il Gesu' apocalittico continua a rappresentare la speranza di un intervento di Dio che ponga fine alle ingiustizie del mondo e ricompensi finalmente coloro che soffrono.

lunedì 28 dicembre 2009

Gesu' povero o ricco?

In questi giorni natalizi uno dei discorsi piu' diffusi e' quello che fa perno sulla vicinanza di Gesu' ai poveri e sulle misere condizioni della sua nascita: tutti i predicatori, dal papa fino al parroco della piu' piccola chiesa ripetono questo concetto, tanto che affermare il contrario sembrerebbe un'assurdita'.
Invece, non si puo' mai dire mai ed infatti, sul sito della CNN-today, il giorno di Natale e' apparso questo articolo che riporta le idee di alcuni predicatori americani sostenitori del cosiddetto "Prosperity Gospel" (Vangelo della prosperita'). Secondo questi uomini di chiesa la ricchezza non sarebbe affatto un male, ma il segno e il risultato della devozione a Cristo: per questo motivo, essi non sono disposti a immaginarsi un Gesu' povero (nemmeno alla nascita), ma sostengono con convinzione che egli sarebbe stato ricco, anche perche' nessuno sarebbe disposto a credere alla predicazione di un povero, mentre tutti prestano fede a chi e' facoltoso (le somiglianze con la situazione italiana attuale sono del tutto casuali). In se stesse queste idee non sono altro che la dimostrazione del livello di follia a cui il consumismo puo' portare le societa' occidentali, ma danno anche lo spunto per discutere di un problema classico della ricerca sul Gesu' storico: la collocazione sociale del profeta di Nazaret.
In genere, ci si accosta alla questione in modo assai superficiale, pensando che si possano ricavare informazioni sul Gesu' storico da versetti dei Vangeli che di storico hanno ben poco. Un buon esempio viene ancora dal Prosperity Gospel, per cui Gesu' sarebbe stato ricco perche' Giovanni ci racconta che, alla sua morte, i soldati romani si sarebbero giocati ai dadi la sua famosa tunica inconsutile (Gv 19:23-24). Tuttavia, oltre al fatto che Giovanni non e' una fonte molto attendibile, bisogna osservare che questo episodio della tunica ha poca probabilita' di essere storico, dal momento che pare essere stato introdotto per dimostrare l'avveramento di una profezia che viene riportata dal Vangelo stesso (Sal 22:19).
Non so dare una risposta al quesito iniziale (sapete che sono un po' refrattario agli studi sul Gesu' storico), ma vorrei solo proporre un'osservazione di metodo: i Vangeli sono stati scritti da qualcuno che aveva una certa preparazione letteraria e quindi doveva avere dei mezzi per permettersi di "sprecare" tempo a studiare. Mi sembra impossibile che degli autori antichi, provenienti dall'elite, possano descrivere il loro eroe come un povero straccione: a me non vengono in mente esempi (a meno che non si tratti di parodie e del topos del filosofo che abbandona tutti i beni per amore della sapienza). Ancora una volta, ho l'impressione che i testi su Gesu' ci raccontino molte piu' cose su chi li ha scritti che non sull'oggetto della narrazione.