Visualizzazione post con etichetta imperialismo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta imperialismo. Mostra tutti i post

sabato 17 dicembre 2011

Gesù storico e nazionalismo

Devo chiedere scusa ai lettori del blog, perché nell'ultimo periodo mi sono un po' sottratto alle mie responsabilità. Purtroppo, un viaggio in America (fra l'altro, per il meeting della SBL fino a San Francisco) e un invito a parlare nella sede di Brescia dell'Università Cattolica mi hanno distratto più di quanto avevo previsto.
A proposito dell'ultimo impegno, devo dire che è stato molto interessante trovarmi a parlare della ricerca sul Gesù storico con persone simpatiche e intelligenti. Tanto per non perdere il filo del discorso, ho pensato di riproporre qui alcune delle riflessioni che ho svolto circa due settimane fa.
Inizierei da una serie di pensieri che mi sono stati sollecitati dalla lettura (tuttora in corso) del più recente libro di Halvor Moxnes, famoso studioso norvegese, che è stata una delle cose più notevoli che ho comprato in California. Il titolo del volume è "Jesus and the Rise of Nationalism. A New Quest for the Nineteenth Century Historical Jesus (Gesù e l'ascesa del nazionalismo. Una nuova ricerca sul Gesù storico del diciannovesimo secolo)". In questo lavoro, Moxnes riprende il progetto di Albert Schweitzer di tracciare una storia della ricerca sul Gesù storico nell'Ottocento. Mentre il lavoro di Schweitzer rimane una pietra miliare difficilmente superabile in completezza, Moxnes ha avvertito una certa "zona d'ombra" che caratterizza l'approccio del geniale esegeta tedesco. In effetti, Schweitzer è implacabile nell'analizzare i vari autori e nel mostrare come infallibilmente i loro "Gesù storici" siano i "gemelli siamesi" delle loro rispettive opinioni teologiche, ma al tempo stesso questo acume viene meno quando si tratta di svelare le motivazioni sociali, politiche e, alla fine, ideologiche che muovono l'intera ricerca (molto probabilmente anche a causa dell'impostazione idealista che è tipica di Schweitzer).
Moxnes si assume l'incarico di "completare" quanto fatto da Schweitzer e di mostrare come la ricerca europea ottocentesca sul Gesù storico sia strettamente legata all'ascesa di fermenti socio-culturali quali il nazionalismo o il colonialismo imperialista. In questo senso, l'opera stessa di Schweitzer offre una testimonianza evidentissima. Si considerino le prime due frasi dell'edizione del 1906 della Storia della ricerca sulla vita di Gesù: "La teologia tedesca risalterà come un grande, un unico fenomeno nella vita mentale e spirituale del nostro tempo. Perché in nessun altro luogo, se non nel temperamento tedesco si può trovare, allo stesso grado di perfezione, il complesso vivente di condizioni e fattori - di pensiero filosofico, acume critico, percezione storica e sentimento religioso - senza i quali nessuna teologia profonda è possibile". In questa prospettiva, anche il fatto che Schweitzer indichi l'insuccesso di questa titanica impresa teologico-storica può ben essere visto come una profezia della enorme crisi (non solo teologica), che di lì a poco travolgerà la Germania e, con essa, l'Europa intera.
Si vede bene come il volume di Moxnes abbia molto da offrire. Di mio, vorrei aggiungere che, oltre ai fenomeni indicati dallo studioso norvegese, l'Ottocento nord-europeo mi sembra anche caratterizzato da un'ascesa dell'individualismo e da una progressiva secolarizzazione, che portava al distacco delle società civili dal controllo ecclesiastico. Se facciamo un salto cronologico fino ai giorni nostri, è interessante vedere che la ricerca sul Gesù storico resta viva ormai solo negli USA, dove nazionalismo, imperialismo, individualismo e progressiva secolarizzazione sono tutti fattori ben presenti. In più (se mi si passa un'ipotesi ardita), quel poco di ricerca rimasta in Europa viene fatta, oggi, per lo più in Italia e Spagna: qui credo si possa dire che la secolarizzazione appare essere l'elemento determinante.

giovedì 3 novembre 2011

Ancora traduzione e ispirazione

Fra i vari blog biblici si è sviluppata recentemente una nuova polemica, interessante soprattutto per i suoi risvolti ideologici. Rodney Decker, professore di Nuovo Testamento e Greco al Baptist Bible Seminary, ha pubblicato sul suo blog alcune osservazioni sulla NIV (New International Version, nella versione rivista del 2011), la traduzione più utilizzata dalle comunità cristiane conservatrici americane. Decker osservava che, nella traduzione dei Salmi, la NIV ha omesso (spostandoli in nota) i casi in cui, fra un verso e l'altro, l'ebraico introduce la parola selah. Questo termine è alquanto misterioso, ma probabilmente indica una notazione musicale per chi cantava i salmi. Perciò, quando viene tradotta, la parola viene resa con il termine "pausa", senza collegamento con il resto del testo. Di conseguenza, Decker approvava la decisione di eliminarla dalla traduzione, visto che non avrebbe senso leggerla, quando, per esempio, si declama il salmo ad alta voce. Rispondendo a Decker, James Hamilton Jr., professore di teologia biblica al Southern Baptist Theological Seminary, si domanda se questa decisione editoriale non vada contro il principio della totale ispirazione del testo biblico. Se si stabilisce (come fanno molti gruppi conservatori che si richiamano alla famosa Dichiarazione di Chicago sull'inerranza biblica del 1978) che la Scrittura è ispirata e, appunto, inerrante in ogni sua parte, la sottrazione anche di una sola parola condurrebbe a giudicare la NIV una versione non ortodossa, perché "evira" il testo sacro per renderlo accettabile alla cultura dei lettori contemporanei.
Questa controversia può apparire cosa squisitamente americana e, quindi, poco interessante per un lettore italiano (ma vorrei solo far notare che, mentre le due edizioni della CEI non riportano il selah, le nuove Diodati e Riveduta lo hanno mantenuto, pur segnalandone la particolarità con il grassetto o con delle parentesi). Tuttavia, la discussione fa emergere alcuni nodi molto importanti: per esempio, come sia complesso definire cosa è "ispirato" in un testo o, una volta che lo si sia stabilito, come sia problematico trasferire questa "ispirazione" da una lingua o da una cultura ad un'altra. Naturalmente, si vede bene in questo caso come entrino in gioco rapporti di forza e ideologici. E' molto rivelatore il modo in cui Hamilton preferisce accostarsi a un testo proveniente da una cultura differente: lo vorrebbe  "sentire un po' estraneo, sentire un po' antico". Si sente in questa scelta terminologica il sapore di un "addomesticamento" imperialista che rende il testo fruibile, ma con il piacere di un esotismo da salotto, che escluda la possibilità che il testo possa disturbare qualcosa di serio nelle convenzioni di chi lo legge.

martedì 20 settembre 2011

Omelie postmoderne?


Alcune settimane fa, sul suo blog, Sandro Magister, giornalista dell'Espresso, ha dato spazio, come usa spesso fare, alla ripresa di un articolo di Pietro De Marco, in cui l'autore esprime giudizi negativi su due omelie ("tipiche di quel cattolicesimo colto, postmoderno, che va per la maggiore in alcune chiese e monasteri") ascoltate durante l'estate. La seconda delle prediche era dedicata al passo matteano (15:21-28) in cui si narra l'incontro fra Gesu' e una donna siro-fenicia: siccome nel corso su Matteo dell'anno scorso ci siamo occupati un po' di questa pericope, la cosa mi ha interessato.
A quanto pare, De Marco ha ascoltato questa omelia "con profondo disagio", perche' il predicatore l'avrebbe letta come il racconto di una "conversione" di Gesu' stesso, che, nello scambio di battute con la donna, arriverebbe a mutare radicalmente il suo iniziale atteggiamento di avversione per una "pagana". Per De Marco, il sacerdote avrebbe sacrificato la cristologia, che si legge nelle dichiarazioni della siro-fenicia, per buttarsi in una "banalizzazione neomoraleggiante (e postmodernamente tutta affettiva) della pastorale". Certo, e' difficile giudicare di un'omelia che e' solo riferita indirettamente, ma e' probabile che il predicatore abbia imboccato questa via tutto sommato apologetica per cercare di dare una spiegazione per il comportamento problematico di Gesu'. Notoriamente, crea difficolta' agli esegeti il fatto che Gesu' chiami una povera donna che lo sta supplicando "cagna" e che poi rincari la dose lodandola solo dopo che ella stessa ha dichiarato che questa ("cagna") e' proprio la designazione adatta per lei.
E' interessante che, alla fine dell'articolo di De Marco, Magister abbia linkato il testo dell'omelia che Ratzinger ha tenuto nella stessa domenica sullo stesso passo. A differenza di De Marco, il Papa e' consapevole dei problemi posti dalla narrazione ("puo' sembrare sconcertante..."), ma la sua soluzione e' diversa: qui, sulla scorta di Agostino, si immagina che Gesu' tenga questo atteggiamento per infiammare il desiderio della donna. Si tratterebbe di una pedagogia divina (credo che sia anche quello che De Marco definisce "maieutica") che condurrebbe, secondo le parole di Ratzinger, alla umilta' e semplicita' ("si', figlio di Davide, sono proprio una cagna, come dici tu! Ma fammi la grazia!"). E' un po' sorprendente questa lettura offerta dal Papa, che sembra dipingere l'immagine assai autoritaria di un Dio che attende che l'essere umano si auto-umilii all'estremo prima di andare in suo aiuto. Peccato, perche' sarebbe stato interessante accostare quello che Gesu' fa in questo passo (con una donna, cananea e apparentemente senza un gran ruolo sociale) con la scena di Mt 8:5-13, in cui il nazareno e' piu' che pronto a correre a casa di un uomo, centurione e probabilmente cittadino romano. Matteo non si azzarda a dare del "cane" a un soldato dell'impero: scherza con i fanti...
Tornando alla questione del postmoderno, tuttavia, cosi' apocalitticamente condannata da De Marco come una "infezione", non mi sembra di vedere una gran differenza fra le due omelie (e probabilmente nemmeno con l'opinione di Agostino, che certo "postmoderno" non era). Un testo fa difficolta' dal punto di vista esegetico e, piuttosto che affrontarne di petto le implicazioni ideologiche, si va creando una storia intima dei personaggi (la "conversione" di Gesu' oppure, piu' tradizionalmente, la pedagogia dell'umiliazione) che non ha alcun riscontro nello scritto. Non si tratta di qualcosa di moderno o post-, ma di una strategia che e' sempre stata praticata.

sabato 17 settembre 2011

Eugene Nida e la traduzione biblica


Un altro nuovo blog che merita attenzione e' BLT, dedicato al tema delle traduzioni bibliche e letterarie in generale. Due giorni fa, una delle autrici del blog, J.K. Gayle, ha pubblicato una ricca discussione delle teorie di Eugene Nida, linguista americano scomparso alcune settimane fa. Nida e la sua teoria della "equivalenza dinamica" (o "equivalenza funzionale") sono stati influentissimi per decenni nell'attivita' della "American Bible Society" e nella sua produzione di traduzioni bibliche in tutte le lingue del mondo.
L'idea dell'equivalenza dinamica sorge come reazione alle traduzioni filologiche, giudicate da Nida troppo "legnose", schiacciate sul linguaggio d'origine e quindi poco utili per quello che il vero obiettivo del linguista americano, la evangelizzazione. Per Nida, percio', il fine del buon traduttore non e' piu' quello di rendere accuratamente le singole parole o le specifiche costruzioni grammaticali, ma quello di essere cosi' esperto degli usi idiomatici della lingua-obiettivo da essere capace di rendere la "funzione" che il testo aveva nella lingua d'origine, vale a dire il messaggio che veniva comunicato a chi leggeva o udiva il testo nella versione originale.
Il post di J.K. Gayle chiarisce alcuni dei rischi insiti in questo modo di procedere. Per esempio, l'autrice fa notare come Nida approvasse una traduzione di Rm 16:16 ("salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo" per la CEI 2008) che suona "datevi l'un l'altro una cordiale stretta di mano". Questa soluzione forse rende bene l'idea del rapporto di fraternita' che deve caratterizzare la comunita' secondo Paolo, ma ci si puo' domandare se l'omissione della parola "bacio" non tolga comunque qualcosa all'intensita', anche fisica, dell'affetto che l'autore intendeva evocare presso i suoi destinatari.
Il fatto che le teorie di Nida (almeno nella loro formulazione classica) debbano essere ripensate e' riconosciuto anche da quelli che hanno proseguito il suo lavoro (si vedano i commenti al post citato sopra), se non altro perche' conoscere il modo in cui i lettori antichi ricevettero un dato testo e' solo poco piu' difficile che conoscere le intenzioni dell'autore. Tuttavia, una discussione sull'equivalenza dinamica di Nida puo' essere molto utile nell'evidenziare alcuni problemi fondamentali inerenti a tutte le traduzioni e a quelle bibliche in particolare. Per esempio, se si giudicano incomprensibili per i lettori della traduzione gli elementi "semitici" nel NT, il risultato che si ottiene lasciandoli da parte e' quello, notato molto bene da J.K. Gayle, di una pericolosa "degiudaizzazione" del testo (per non parlare addirittura di supersessionismo). Ovviamente, nel caso di una traduzione, come in tutti gli altri in cui si incontrano linguaggi e culture, abbiamo a che fare con una dinamica di potere. Spesso (fino a pochi decenni fa) le traduzioni cristiane della Bibbia sono state strumenti d'imperialismo nei confronti del giudaismo, mentre, nei casi di versioni approntate per l'evangelizzazione, si tratta di negoziazioni, in cui tuttavia (per evidenti ragioni storiche) una parte occupa in una posizione di forza che le rende sovente veicoli tanto della "buona novella" quanto delle ideologie colonialiste.

venerdì 9 settembre 2011

La professione del neotestamentarista


Gli ultimi giorni di attivita' sui blog biblici hanno visto un'intensa polemica fra Larry Hurtado, celebre professore di Edinburgo (qui e qui), e Graham Veale (qui), che ha recentemente aperto un blog molto interessante e divertente dal titolo BW16. Dopo l'iniziale scambio di post (che trovate linkati sopra), la discussione ha preso un tono un po' acidulo che l'ha resa meno apprezzabile, ma ciononostante i temi sollevati restano assai importanti.
Dico questo in virtu' tanto della mia personale esperienza di trasferimento fra due mondi accademici per molti versi distanti anni luce quanto sulla base di un lavoro di "ristrutturazione" del programma di dottorato che ha impiegato me e i miei colleghi per buona parte dell'anno passato e in cui molti degli elementi dibattuti sono stati proprio quelli sollevati qui.
In soldoni, Hurtado ha dato sfogo alla sua frustrazione per l'impreparazione che caratterizzerebbe alcuni dei dottorandi in Nuovo Testamento nel Regno Unito: per risolvere il problema, la proposta, avanzata in modo assai prescrittivo, e' quella di richiedere, come elemento minimo per il conseguimento del dottorato, la conoscenza verificata di greco (koine), ebraico, inglese, tedesco e francese.
Mentre sulle prime due lingue c'e' stata poca discussione (ma, in realta', molto ci sarebbe da dire, a cominciare da quell'entita' assai vaga che e' il greco koine), Veale ha reagito alla selezione delle altre tre lingue moderne, che in effetti, se dichiarate come le uniche "importanti" e "necessarie" per la professione del neotestamentarista, puzzano non poco di colonialismo ottocentesco. Mi lascia particolarmente sorpreso vedere che Hurtado nemmeno prende in considerazione la possibilita' di inserire nella lista lo spagnolo (che oggi non mi sembra piu' inferiore al francese per quanto riguarda la produzione scientifica): certo, non si uscirebbe dal discorso coloniale, ma almeno si darebbe voce a molti studiosi che non provengono dal cosiddetto "primo mondo".
In sostanza, le implicazioni ideologiche della posizione di Hurtado sono ben evidenziate dalla sua decisione di trattare l'argomento sotto il titolo di "strumenti della professione", "dimenticando" il valore politico che ha la definzione di quali siano gli strumenti presentati come normativi per comunicare e per studiare. In questo senso e' del tutto apprezzabile lo sforzo che fa Veale per mantenere una diversita' fra programmi di dottorato, invece di stabilire autoritariamente uno standard che debba essere comune a tutti. In effetti, non tutti i programmi potranno offrire tutte le possibilita', ma le singole scuole dovranno "disegnare" i loro programmi in accordo con gli interessi dei docenti e le esigenze degli studenti: tuttavia, la diversita' dei programmi dovrebbe essere percepita in principio, mi sembra, come una ricchezza, non some un difetto da correggere.

giovedì 19 maggio 2011

Violenza imperiale


Sto leggendo l'interessante libro di David Mattingly, professore di archeologia e storia romana all'universita' di Leicester, "Imperialism, Power, and Identity. Experiencing the Roman Empire" ("Imperialismo, potere e identita'. Fare esperienza dell'impero romano"). Una delle tesi fondamentali del volume e' che gli storici che si occupano di Roma sono influenzati dalle tradizioni imperialiste europee e tendono quindi a rappresentare l'impero romano come qualcosa di assolutamente positivo, "dimenticandone" la sostanza sfruttatrice e oppressiva. In una delle prime pagine, Mattingly fa un'osservazione molto interessante: appare inspiegabile come la cinematografia sia riuscita a dare un'immagine piu' critica di Roma di quanto non abbiano saputo fare gli storici di professione. L'autore inserisce quindi un elenco di film che va da grandi classici come "Ben Hur" e "Spartacus" fino a "Rome", la truculenta serie televisiva prodotta pochi anni fa in Inghilterra. Mi ha colpito il fatto che Mattingly chiuda l'elenco con una menzione positiva di "The Passion of the Christ".
La cosa e' interessante perche', fra quelli che studiano il Nuovo Testamento, questo film e' regolarmente criticato per numerosi motivi che vanno dal suo pronunciato anti-giudaismo fino proprio alla violenza di alcune scene come quella particolarmente impressionante della flagellazione di Gesu'. Invece, Mattingly, in nota, apprezza proprio questo ultimo aspetto che, pur rendendo il film "quasi inguardabile", tuttavia esprime in modo convincente la "violenza quotidiana" che caratterizzava l'imperialismo romano. Ci sono diversi motivi per cui questo giudizio non mi convince granche': soprattutto, non credo che la violenza del film di Gibson risulti "quotidiana", ma, al contrario, essa intende sottolineare che la sofferenza di Gesu' e' stata eccezionale (finendo paradossalmente, dal momento che lo spettatore medio e' sottoposto regolarmente a somministrazioni di questa violenza "inguardabile", per trasformare Gesu' in un altro di quei personaggi hollywoodiani che finiscono i film tutti pesti e sanguinolenti, ma vincitori).
Tuttavia, l'osservazione di Mattingly punta l'attenzione su un aspetto metodologicamente assai importante: la violenza dell'imperialismo si nasconde nelle fibre piu' profonde di quei testi che sono prodotti dalle culture influenzate e dominate dall'impero. Non e' facile per lo storico portare alla luce questa dimensione. Siccome mi occupo di Q, ho pensato un po' a questo documento, nel quale la violenza non sembra essere uno dei temi dominanti (anche per l'assenza di un racconto della passione). Pero', se si riflette bene, atti ed espressioni violente sono quasi ovunque nel breve spazio di una manciata di versi: Gesu' che non porta la pace, ma la spada, storie di uccisioni in luoghi sacri, furti con scasso, pestaggi... Sembra che il linguaggio e le immagini stesse non possano evitare questi toni che pervadevano la societa' e i pensieri degli esseri umani.

giovedì 21 aprile 2011

Getsemani


Nell'udienza generale di ieri, il Papa, a quanto pare parlando a braccio, ha commentato brevemente la famosa scena dell'agonia nell'orto dei Getsemani in un modo molto simile a quanto fa anche nel suo recente volume su Gesu'. In particolare, rifacendosi a un passo di Marco 14:36, nel quale viene riportata la preghiera di Gesu', Ratzinger dice che "i tre testimoni hanno conservato la parola ebraica o aramaica con la quale il Signore ha parlato al Padre ... questa formula, abba', e' una forma familiare del termine padre, una forma che si usa solo in famiglia, che non si e' mai usata nei confronti di Dio". In questa affermazione praticamente tutto e' sbagliato a cominciare dalla menzione dei tre testimoni, visto che solo Marco ha la traslitterazione greca del semitico abba', mentre i paralleli (Mt 26:42 e Lc 22:42) hanno solo pater. Inoltre, come si fa notare in questo post di WIT in cui si commenta l'ultimo libro papale, l'ipotesi secondo la quale l'uso di abba' sia unico di Gesu' e sia un segno di particolare familiarita', oltre che puzzare non poco di anti-giudaismo, e' stata totalmente confutata da ricerche nemmeno tanto recenti.
Sarebbe cosa di poco conto se questa fosse un'ulteriore dimostrazione del disinteresse per la ricerca scientifica con cui Ratzinger si accosta all'esegesi. Purtroppo, temo che il problema sia piu' profondo. L'episodio dei Getsemani, dopo essere stato una vera e propria "croce" per i commentatori antichi e medievali (che difficilmente potevano accettare questo ritratto di un Gesu' "emotivo" ed indegno del divino), e' divenuto uno dei piu' amati dell'epoca moderna e contemporanea. Oggi e' facile per i lettori mettersi in relazione con il Cristo sperduto davanti alla sofferenza e all'angoscia di questa pericope. Comprensibilmente, Ratzinger batte su questo tasto nella sua omelia, ma i nodi non tardano a venire al pettine.
Gesu' prega affinche' sia allontanata da lui un "calice", ma cos'e' questo "calice"? Per Ratzinger si tratta de "l'abisso della morte, il terrore del nulla, la minaccia della sofferenza": la volonta' del "padre", che Gesu' accetta, e' che il figlio sprofondi in tutto questo. Ma quale "padre" puo' "volere" questo per suo figlio? Un "padre" a cui ci si rivolge chiamandolo "babbino"?
In realta', gia' nel 1992 in un articolo citato nel post di WIT, Mary Rose D'Angelo, professore di Nuovo Testamento alla Notre Dame University, aveva mostrato come il "padre" sulla bocca di Gesu', lungi dall'essere un vezzeggiativo, serve a rappresentare un Dio che, secondo la concezione aristotelico-stoica, sta nel cosmo come un paterfamilias o come un imperatore.
Provo a pormi, come provocazione, una domanda fondamentale. Si potrebbe amare questo Dio? Certo. Quante donne dicono di amare i mariti che le picchiano? Quanti uomini dicono di amare i sovrani che li mandano a farsi macellare in guerra? Quanti oppressi hanno accettato in silenzio e per amore ingiustizie e violenze, magari dopo aver meditato la scena dell'orto dei Getsemani? Mi sembra che ci voglia qualcosa di piu' di un'esegesi zoppicante per mandare giu' il boccone di questo Dio "padre".

giovedì 14 aprile 2011

Enzo Bianchi e la bellezza di Davide


Mi dispiace un po' criticare sempre Uomini e profeti e in particolare le trasmissioni con Enzo Bianchi, ma una delle ultime puntate, andata in onda il 27 marzo scorso e dedicata alla figura di Davide, merita un commento (a parziale compensazione, consiglio assolutamente di sentire la puntata doppia dedicata alla violenza nella Bibbia, in cui si trovano interventi di notevole spessore, in particolare di Stefano Levi della Torre).
Bianchi che parla di Davide a tratti fa rizzare i capelli in testa, come quando, verso la fine della trasmissione, viene a trattare della "scottante" relazione omosessuale fra il giovane e Gionata, il figlio di Saul. Mentre la stessa conduttrice del programma, Gabriella Caramore, cerca di farlo desistere, Bianchi ci vuole a tutti i costi dire che il rapporto fra i due e' stato dovuto al fatto che, in quei tempi, non si potevano avere relazioni piene con le donne: insomma, amare gli uomini e' un "ripiego" per quelli che non possono essere invece "normali" come noi (per chi voglia saperne di piu' su Davide e Gionata consiglio di guardare qui).
Tuttavia, vorrei soffermarmi un momento su alcune cose dette da Bianchi all'inizio della puntata, quando si commenta il capitolo 16 del Primo libro di Samuele. Si tratta dell'unzione di Davide da parte di Samuele, il profeta che viene inviato da Dio alla casa di Iesse senza sapere quale dei figli di quest'ultimo sara' il prescelto. Iesse ha sette figli e li presenta tutti al profeta, che pero' li rifiuta, benche' siano fisicamente prestanti (v. 7). Di solito, questo racconto da' l'occasione ai predicatori per una sviolinata sul fatto che Dio non sceglie in base alle apparenze e Bianchi non manca di adeguarsi. Peccato che, immediatamente dopo, lo stesso Bianchi vada in brodo di giuggiole quando il testo (v. 12) ci presenta Davide, che verra' consacrato re, come un giovane di bell'aspetto, fulvo e dai begli occhi. In realta', puo' ben darsi che Dio non guardi all'aspetto esteriore, ma (che caso!) nei racconti biblici i suoi eletti non sono mai storpi o ciechi o deformi. Per il pensiero epico e mitico, che si trova rispecchiato in questi testi, la perfezione del corpo e' proprio il segno piu' chiaro della predilezione divina e viceversa la disabilita' e' il segno dello sfavore: non e' un caso che sacredoti di Israele possano essere solo uomini senza difetti fisici. Si badi che tale schema culturale non e' solo dell'antico Israele (chi non ricorda la storia di Tersite nell'Iliade?) e che nemmeno il cristianesimo ne e' esente: mi faceva notare una collega che nei Vangeli i disabili sono presentati solo "in negativo", come soggetti che devono essere "curati" da Gesu', con effetti notevoli sul carattere meramente assistenzialista dell'approccio cristiano alla disabilita'.
Bianchi continua su questa linea, che si potrebbe definire grottesca, quando commenta ancora entusiasta la bellezza di Davide: "come gli piacevano le donne! E come lui piaceva a loro! Quante ne ha avute! Non c'e' da stupirsi: lui cosi' biondo, in mezzo a quegli altri tutti neri!" Alla faccia del razzismo e dell'etnocentrismo!

giovedì 28 ottobre 2010

Ricchezza e apocalisse


Oggi mi sono trovato a discutere con alcuni colleghi e studenti un passo affascinante tratto dal capitolo 18 dell'Apocalisse di Giovanni. In particolare, si cercava di interpretare il famoso lamento dei mercanti che contemplano la caduta di Babilonia:
"Anche i mercanti della terra piangono e si lamentano su di essa, perche' nessuno compra piu' le loro merci: i loro carichi d'oro, d'argento e di pietre preziose, di perle, di lino, di porpora, di seta e di scarlatto; legni profumati di ogni specie, oggetti d'avorio, di legno, di bronzo, di ferro, di marmo; cinnamomo, amomo, profumi, unguento, incenso, vino, olio, fior di farina, frumento, bestiame, greggi, cavalli, carri, schiavi e vite umane" (18:11-13).
Incidentalmente, faccio notare che la conclusione del versetto, nella traduzione CEI, e' davvero fiacca. Sia la Nuova Riveduta che la Nuova Diodati hanno reso molto piu' efficacemente e letteralmente con "corpi e anime di uomini" ("corpi" e' il greco "somata", che spesso e' usato per indicare gli schiavi, ma credo che lasciarlo cosi' com'e' renda di piu' l'idea della commercializzazione che fagocita ogni cosa).
Tuttavia, la discussione verteva su altro: quasi tutti i commentatori prendono questo passo come un esempio della inflessibile denuncia dell'imperialismo romano che caratterizzerebbe l'Apocalisse. E' facile vedere qui la condanna del lusso sfrenato e della globalizzazione imperiale.
Pero', ci sono alcuni problemini: e' utile far notare che a piangere sono solo i mercanti, non certo i "veri" ricchi dell'impero, senatori che possedevano latifondi immensi coltivati da schiavi. Non si trovera' nell'intera Apocalisse nemmeno un attacco contro questo tipo di ricchezza terriera, perche' in realta' Giovanni non fa altro che prendere a prestito uno dei cliche' piu' amati dai moralisti romani, la tirata contro i "nuovi ricchi", che hanno ammassato il denaro non nel modo tradizionale, ma attraverso metodi "corrotti" e moralmente discutibili dal punto di vista dell'elite (gli esempi sono ben noti e spaziano dalla descrizione di Trimalcione in Petronio, a Giovenale, per arrivare fino a quello con la faccia di bronzo piu' spessa di tutti, Seneca).
Paradossalmente, l'Apocalisse, lungi dall'essere anti-imperialista, imita e riproduce elementi essenziali dell'ideologia imperiale: la cosa e' evidente se si legge piu' avanti, dove (ai capitoli 20 e 21) la ricchezza viene sfoggiata senza problemi, e spesso perfino usando le stesse parole del capitolo 18, per descrivere la nuova Gerusalemme. Non sorprende, quindi, che l'immaginario dell'Apocalisse sia stato adottato da Costantino immediatamente e con successo e che, piu' vicino a noi, l'imperialismo americano ne abbia fatto un fondamento della sua politica.

lunedì 7 giugno 2010

Invenzione, riscrittura, usurpazione


Sono stato per alcuni giorni ad Aahrus, in Danimarca, dove ho partecipato ad un convegno molto bello dal titolo "Invention, Rewriting, Usurpation: Discursive Fights over Religious Traditions in Antiquity" ("Invenzione, riscrittura, usurpazione: lotte dialettiche attorno alle tradizioni religiose dell'antichita'"). Tema fondamentale del colloquio, di cui cerchero' di riportare gli spunti piu' interessanti nelle prossime settimane, e' stato lo studio di come le religioni antiche (soprattutto il cristianesimo) hanno creato e modificato le loro tradizioni in rapporto con chi le aveva precedute e chi si trovava in competizione con esse. I tre sostantivi nel titolo (invenzione, riscrittura e usurpazione) non sono scelti a caso, ma indicano tre possibili modalita' attraverso le quali questi complessi fenomeni culturali possono essere analizzati: "invenzione" indica la creazione di una tradizione per legittimare l'esistenza o l'identita' di un certo gruppo (questo accade per tutti e tutte le "tradizioni" in gran parte non sono altro che invenzioni), "riscrittura" indica l'atto di prendere una tradizione altrui e di "riscriverla" inserendoci i propri significati (e' quanto accade nel momento in cui i cristiani assumono la Bibbia ebraica e la reinterpretano trovandoci dappertutto profezie su Cristo). "Usurpazione" e' un caso particolare della "riscrittura", ma comporta anche una delle operazioni piu' spiacevoli, perche' l'originale "proprietario" della tradizione "riscritta" viene anche espropriato e il nuovo possessore si sostituisce completamente all'antico sopraffacendolo (questo, purtroppo, e' stato fatto dai cristiani ai danni degli Ebrei, la cui tradizione - per esempio, il nome stesso di "Israele" - e' stata assunta nella sua totalita' dai nuovi padroni).
Come indicato ancora dal titolo, questi fenomeni non sono mai limitati ad un piano unicamente intellettuale, ma diventano quasi immancabilmente "lotte", perche' dietro all'invenzione, alla riscrittura o all'usurpazione si trova sempre il tentativo di acquisire o di difendere una posizione di potere. Per esempio, nello scontro fra cristianesimo e giudaismo cui si accennava sopra il rapporto di potere fra le due religioni e' sempre al centro della discussione, ma non solo perche' una vuole prevalere sull'altra. In piu' bisogna anche considerare che, a partire dal secondo secolo, tanto i cristiani quanto gli Ebrei cercano di presentare la propria parte al governo romano come la piu' rispettosa dell'ordine costituito e dell'autorita': il vero potere di permettere l'esistenza di uno o dell'altra religione spetta infatti all'impero e naturalmente i due contendenti lottano per negoziare la propria posizione.

giovedì 27 maggio 2010

L'inganno di Giacobbe e l'imperialismo americano


Continua la serie di "Uomini e profeti" dedicata alla lettura sistematica della Bibbia: con un po' di ritardo ho ascoltato nei giorni scorsi la puntata del 9 maggio dedicata ai capitoli 25-28 della Genesi. Alla trasmissione ha partecipato Paolo Ricca, che e' professore emerito di Storia della Chiesa alla Facolta' Valdese di teologia, e comprensibilmente gran parte della discussione e' stata dedicata al famoso episodio (capitolo 27) di Giacobbe che inganna il padre cieco per farsi dare la benedizione che sarebbe invece spettata al primogenito Esau'.
Ricca, posto di fronte al problema di questo comportamento moralmente assai discutibile, ha offerto una spiegazione che mi lascia assai perplesso. In buona sostanza, si tratta del tentativo, molto apologetico, di cavare qualche significato positivo da un racconto che ha come tema quello di una frode i danni di un cieco. Di solito, la tattica piu' usata e' quella di dire tutto il male possibile di Esau' per dimostrare che in fondo se lo meritava di subire questa fregatura, ma Ricca introduce una lettura differente. Per lui, questo racconto serve a dimostrare che Dio "non fa differenza di persone", ma ama ugualmente tutti gli esseri umani anche se sono peccatori. Quando gli viene chiesto (verso la fine della trasmissione) come mai Dio permette a Giacobbe di farla franca con il suo inganno, Ricca e' ancora piu' esplicito e dice che si vede qui come Dio distingua "fra peccato e peccatore".
Ora, non e' difficile capire da dove Ricca prenda questa esegesi: essa dipende dal discorso paolino sulla grazia cosi' come esso viene interpretato da Lutero e da altri teologi della Riforma. Niente di male nel fatto che Dio ami un peccatore indipendentemente dai suoi peccati, ma come la mettiamo se, come in questo caso, Dio permette il successo delle azioni peccaminose? L'esito positivo di rapine o omicidi andrebbe considerato merito della grazia di Dio?
Non so quanto consapevolmente, ma Ricca mette il dito nella piaga di un dibattito assai acceso in America in questi ultimi anni. Di recente una teologa latino-americana, Elsa Tamez, ha puntato in modo molto eloquente l'attenzione sul legame che esiste fra la dottrina della grazia di certi evangelici e la giustificazione del duro neo-colonialismo imperialista esercitato dagli USA in vari continenti. Se la grazia copre tutto (e, come sembra dirci Ricca a proposito di Giacobbe, Dio non si preoccupa nemmeno molto della qualita' morale delle azioni compiute) e' facile capire come ci si possa sentire sempre "giustificati", anche quando si seminano nel mondo guerre, poverta' e dittature.

sabato 12 dicembre 2009

La nascita del Salvatore

Ho letto di recente questo pezzo di Ben Witherington sul racconto della nascita di Gesu' nel Vangelo di Luca. Witherington e' il piu' famoso fra i biblisti evangelici degli USA e, come c'e' da aspettarsi, la sua lettura di Luca e' totalmente apologetica, al punto che non c'e' nemmeno la possibilita' di definirla storica o scientifica. Non riesco mai a capire perche' questi studiosi debbano dimostrare a tutti i costi che gli evangelisti non hanno mai commesso nemmeno un errore: se, per esempio, Luca ha preso un abbaglio sulla famosa data del censimento, non penso che questo diminuisca il valore teologico di quello che vuole comunicare. Non discutero' pero' della data del censimento, ma voglio solo richiamare l'attenzione sulla stranissima traduzione che Witherington propone nella nota 1 per Lc 2:2 (sarebbe qualcosa come "questo censimento accadde prima che Quirinio fosse governatore della Siria"): una lettrice di questo blog ha presentato qualche tempo fa un articolo, molto preciso e molto ben argomentato, che dimostra come una traduzione di questo tipo non sia assolutamente possibile.
Vorrei spendere alcune parole su un altro particolare: verso la fine del pezzo, Witherington ci dice che quando gli angeli annunciano la nascita di Gesu' ai pastori (Lc 2:11) questo annuncio e' costruito usando la terminologia del culto imperiale (soprattutto il termine "salvatore"). Secondo Witherington, qui Luca vorrebbe sostenere che Augusto e' solo un falso "salvatore", mentre il "vero" salvatore dell'umanita' e' appena nato. Questa interpretazione non e' strana oggi per uno studioso americano: ci si vergogna un po' del fatto che il Nuovo Testamento e' stato usato spessissimo da tutti gli imperialismi e quindi si cerca in ogni modo di dimostrare che tutti gli scritti cristiani erano accanitamente anti-imperialisti e quindi anti-romani. Ovviamente questo e' difficilissimo per un Vangelo come quello di Luca che e' uno dei piu' filo-romani dell'intero Nuovo Testamento. In questo caso, il testo non aiuta Witherington: Lc 2:11 non dice nemmeno "il" salvatore, figurarsi il "vero" salvatore.
In effetti, il titolo di soter ("salvatore") non era usato solo dall'imperatore, ma anche per quasi tutte le divinita' dell'impero (senza scomodare L'asino d'oro, fra i papiri egiziani ci sono famosissimi inni a Iside in cui la dea e' ripetutamente chiamata "salvatrice"). E' abbastanza chiaro cosa vuole fare Luca: vuole mettere il cristianesimo sul mercato dei culti dell'impero e in pratica ci dice: "guardate, abbiamo un Salvatore anche noi, come Mitra, Iside o Dioniso".

domenica 22 novembre 2009

Convegno della SBL a New Orleans

Come ogni anno, l'associazione biblica americana (Society of Biblical Literature) organizza il suo convegno annuale in una diversa citta' degli USA e quest'anno e' toccato a New Orleans. In realta', questo convegno, anziche' essere ristretto all'America, puo' ben essere considerato un convegno mondiale, perche' ci vengono a parlare e a incontrarsi accademici da tutto il mondo.
Tanto per non perdere l'abitudine, ho deciso di scrivere alcune note prima di andare a letto, ma senza nessuna pretesa di completezza, perche' il programma e' troppo vasto per poter essere anche solo enunciato qui.
Vorrei riferire solo di due relazioni che mi sono parse interessanti. Anzitutto, ho ascoltato Christian Askeland, un dottorando dell'universita' di Cambridge, che ha parlato di un papiro copto della Bodleian Library contenente la parte finale del capitolo 20 di Giovanni. La cosa e' interessante, perche' quasi tutti gli studiosi pensano che il capitolo 21 del Vangelo sia in realta' un finale secondario, aggiunto da un redattore al Vengelo gia' finito. Askeland ha sostenuto, in maniera piuttosto convincente, che il papiro copto e' solo un esercizio di scrittura (anche non molto ben riuscito) e quindi non puo' dirci molto sull'estensione del Vangelo usato dal copista.
In un'altra sessione, Daniel Schowalter ha descritto il tempio dedicato ad Augusto ed eretto da Erode a Omrit, nel posto vicino a Cesarea, in cui Marco ambienta la famosa "confessione" di Mc 8:27-30. Molti commentatori interpretano questo passo come un attacco all'autorita' dell'imperatore, ma Schowalter ha fatto notare che Marco non ha nessuna critica anti-imperiale, al massimo una critica al messianismo giudaico, dal momento che subito dopo Gesu' predice che il Cristo dovra' soffrire e essere messo a morte. L'archeologo ha concluso chiedendosi come mai Marco ha collocato la "confessione" proprio in quel luogo. A mio avviso, ci sono pochi dubbi: l'autore del Vangelo voleva sfruttare la potenza dell'immagine imperiale per esaltare quella del Cristo. 

giovedì 1 ottobre 2009

Dopo Cristo o era volgare?

Ho letto oggi un simpatico articolo di Bob Cargill, di UCLA, apparso su Bible and Interpretation. L'autore chiede a tutti i lettori di adeguarsi a quello che ormai e' stato gia' fatto sistematicamente dalla maggioranza degli studiosi anglosassoni che non sono legati ad alcuna confessione religiosa: abbandonare definitivamente le vecchie diciture BC ("before Christ", che corrisponde al nostro "avanti Cristo") e AD ("Anno Domini", che corrisponde al nostro "dopo Cristo") per adottare le nuove sigle BCE ("before the common era") e CE ("common era") come avviene ormai in tutte le pubblicazioni scientifiche. La scelta sarebbe giusta per molte ragioni che Cargill espone assai chiaramente, ma, per chi scrive in italiano, esiste effettivamente un problema speciale: mentre BCE e CE sono abbastanza belle e suonano anche bene, le alternative italiane ("avanti l'era volgare" e "era volgare", cioe' a.e.v. e e.v.) sono abbastanza bruttine (ovviamente, non bisogna credere, come mi era accaduto uno volta con uno studente, che "volgare" voglia essere offensivo, ma vuol semplicemente dire "comune" come quando si parla del "volgare di Dante").
Di certo, Cargill ha ragione quando ricorda che contare gli anni in "prima" e "dopo Cristo" non ha nessun senso, dal momento che i Vangeli non danno una datazione coerente per la nascita di Gesu' e che comunque essa non corrisponderebbe al fantomatico "anno zero". Come sapete, i Vangeli canonici hanno due versioni completamente diverse della nascita di Gesu', quella di Matteo e quella di Luca. Il primo ci dice che Gesu' sarebbe nato prima della morte di Erode, avvenuta nel 4 avanti Cristo. Luca, al contrario, fa coincidere la nascita con il famoso censimento di Quirinio che invece avvenne nel 6 dopo Cristo. Ci rimane quindi una forbice di almeno 10 anni.
Comunque, l'argomento piu' forte di Cargill e' senz'altro il fatto che, eliminando le vecchie diciture, si eliminerebbe anche uno degli aspetti piu' odiosi dell'imperialismo culturale cristiano, vale a dire il desiderio di colonizzare il tempo di tutto il mondo facendo sembrare che tutto quello che e' accaduto "prima di Cristo" ha avuto senso solo perche' era una preparazione a questo grande evento.
Tutto sommato, penso che seguiro il consiglio anche su questo blog e cerchero' di abituarmi alle due nuove sigle a.e.v. e e.v.

mercoledì 19 agosto 2009

Ancora una volta il numero della bestia e le datazioni

Con piacere mi sono accorto che l'ultimo post, dedicato al significato del numero 666, ha suscitato, come peraltro fa da secoli, una buona discussione. Mi sembra giusto aggiungere qualche commento per chiarire alcuni dei punti dibattuti.
Anzitutto, una riflessione sulla datazione dell'Apocalisse: premetto che io non sono un fanatico delle datazioni dei libri biblici, perche' si tratta di un affare molto problematico e che difficilmente raggiunge risultati accettabili. Per quanto riguarda l'autore del testo, egli e' uno dei pochi scrittori del Nuovo Testamento che dice il proprio nome (proprio all'inizio dell'opera). Ovviamente, questo non aiuta molto perche' egli poi non aggiunge altri dati biografici: la tradizione che lo identifica con Giovanni, l'evangelista e discepolo di Gesu', ha poco valore perche' appare solo molto tardi. Per quanto riguarda Babilonia, non mi pare che nessuno prenda questo nome cosi' com'e', soprattutto perche' la citta' di Babilonia in Mesopotamia, al tempo in cui viene presumibilmente scritta l'Apocalisse (diciamo i primi due secoli dopo Cristo), non ha piu' alcun ruolo storico o politico. Siccome, pero', Babilonia compare spesso nell'Antico Testamento come nemica di Israele, e' comprensibile che quel nome sia usato, come una sorta di codice, per riferirsi alla vera nemica dei cristiani, vale a dire Roma (si tenga presente anche che la grande prostituta del capitolo 17 e' si' chiamata "Babilonia la grande", ma si dice esplicitamente che questo e' un "nome misterioso" al v. 5).
Veniamo dunque all'identificazione della bestia: di certo, Nerone non e' l'unico candidato possibile. Diocleziano, che regna alla fine del terzo secolo, e' da escludere, perche' l'Apocalisse e' stata di certo scritta prima della fine del secondo secolo, quando viene citata da Ireneo di Lione. Un certo numero di studiosi sostiene che un candidato buono potrebbe essere Domiziano, che regna alcuni anni dopo Nerone: personalmente, ritengo che l'ipotesi neroniana sia piu' convincente ed elegante perche' per collegare Domiziano con il 666 si deve ricorrere a complicazioni molto piu' astruse di quella di cui ho parlato nell'ultimo post. Si tratta di una ipotesi storica e quindi per forza non sicura al 100%: la sua virtu' e' che si tratta di un'ipotesi verificabile con metodi razionali, a differenza di altre spiegazioni che dipendono da rivelazioni profetiche o mistiche, come nel caso dell'identificazione dell'Anticristo con il papa o con Obama. Adesso vi lascio, perche' questo post sta assumendo proporzioni ciclopiche, ma presto scrivero' ancora sull'argomento per soddisfare le curiosita' relative al numero alternativo 616 ed all'identificazione con Caligola.  

sabato 15 agosto 2009

Anticristo II

Come abbiamo visto in precedenza, l'autore dell'Apocalisse ricombina elementi tratti dalle antiche profezie, ma la sua attivita' letteraria non si ferma qui. E' molto importante notare che, nell'intenzione dello scrittore apocalittico, le profezie si sono compiute nel momento storico in cui egli vive e scrive la sua opera.
Questo e' vero anche nel caso della figura dell'Anticristo e ve ne propongo alcuni esempi:
1. Proprio all'inizio del capitolo 13 si dice che l'Anticristo e' una bestia "che viene dal mare": perche' questo elemento? Il mare identifica la bestia come una rappresentazione simbolica del potere imperiale di Roma: l'Apocalisse e' stata scritta nella provincia romana d'Asia (la parte piu' occidentale dell'odierna Turchia) e infatti noi sappiamo che ogni anno il governatore, il proconsole d'Asia, giungeva nella sua capitale, Efeso, in nave e, quindi, dal mare.
2. Le sette teste della bestia sono un indizio di grande importanza per la datazione dell'Apocalisse, perche' in 17:9 ci viene detto che esse rappresentano "sette colli" su cui siede la prostituta (un riferimento molto chiaro a Roma) e "sette re", di cui il sesto e' attualmente in vita, mentre i precedenti cinque sono morti. Se si contano gli imperatori romani a partire da Cesare (come si faceva nell'antichita': si pensi alle "Vite dei dodici Cesari" di Svetonio) si vede che il sesto e' Nerone, famoso per aver perseguitato duramente i cristiani. E' per questo motivo che l'Apocalisse viene da alcuni studiosi datata all'epoca neroniana: diciamo gli anni 60 del primo secolo.
3. Per finire, in 13:8, al culmine del potere della bestia, si dice che essa viene adorata dagli abitanti della terra. Molti vedono qui un riferimento alla pretesa degli imperatori di venire adorati come dei: l'Apocalisse polemizza anche altrove contro questa pratica che incomincia a diffondersi in Oriente proprio alla fine del primo secolo.
Da questi cenni si deduce che l'autore dell'Apocalisse non prevede un futuro nebuloso e lontano, ma intende descrivere simbolicamente le ingiustizie che vengono ogni giorno compiute dall'imperialismo romano.