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venerdì 23 dicembre 2011

5 miti per Natale

Alcuni giorni fa, un giornalista della Washington Post mi ha contattato perché era interessato a preparare un pezzo su "debunking 5 myths about Christmas (sfatare 5 miti sul Natale)". Ho detto di no, perché ovviamente sarebbe stato poco pratico farlo dall'Italia, ma soprattutto perché mi sembra un po' stupido che la "funzione" di uno storico sia ridotta a quella (schiettamente positivistica) di "sfatare miti".
Tuttavia, devo ammettere che l'idea mi è rimasta un po' nella mente in questi ultimi giorni e ho giocato a immaginare quali sarebbero stati i 5 "miti" che avrei scelto di trattare. In occasione della festività, ho quindi deciso di mettere l'elenco qui sul blog, lasciando ai lettori la facoltà di dissentire o di suggerire altre liste, se riterranno la mia insoddisfacente.
Non aspettatevi nulla di eclatante però: si tratta di cose ben note.
1. La data. Ovviamente, il primo "mito" deve essere quello legato alla nascita di Gesù nell'anno 0, che non è possibile, perché la scelta è limitata fra le date presupposte da Matteo e da Luca. Il primo colloca il suo racconto della Natività prima del 4 avanti la nostra era (perché fa interagire Gesù ed Erode il Grande, che muore in quell'anno), mentre il secondo pone gli eventi nel 7 della nostra era, perché quello è l'anno del primo censimento della provincia di Siria.
2. Il censimento. L'impossibilità cronologica di questa seconda data (avremmo un Gesù troppo giovane al momento della sua morte) fa cadere anche la possibilità che la nascita sia coincisa con il famoso censimento "di tutta la terra" (Lc 2:1). Luca ha probabilmente fatto coincidere i due eventi perché interessato a sottolineare la dimensione cosmica della Natività (appoggiandosi anche sul suo usuale scarso rispetto per la precisione quando si ha a che fare con date o altre questioni di cronologia).
3. Il bue e l'asinello. Questi due personaggi fondamentali di ogni presepe che si rispetti non compaiono in nessuno dei racconti canonici della Natività. Probabilmente la loro prima apparizione è nell'apocrifo Vangelo dello Pseudo-Matteo (un testo molto popolare in epoca medievale) che è molto tardo (forse del settimo secolo) e che presenta la scena come il compimento della profezia di Isaia 1:3 (questo "mito" e quello successivo, si capirà, sono derivati da lunghe sessioni di contemplazioni di presepi a cui sono stato esposto da mio figlio negli ultimi giorni).
4. I 3 "re" magi. Come ho già scritto, i magi non sono né "re" né sono tre. Inoltre, nulla nel racconto di Matteo, che unico ci riporta questo episodio, induce a immaginarli di tre differenti colori per rappresentare le tre "razze" del genere umano (anche questo è un particolare probabilmente di origine medievale).
5. L'albergo. Molte recite scolastiche e di oratorio hanno il particolare patetico di Giuseppe e Maria che si vedono rifiutare un posto in un "albergo" e devono ripiegare su una stalla. Questa tradizione si appoggia su una erronea traduzione di Lc 2:7. In questo versetto il greco κατάλυμα (kataluma) non può mai essere tradotto "albergo", ma indica la parte abitabile o "nobile" di una casa, di contro alla stalla in cui venivano tenute le bestie (va notato che, in questo caso, la nuova versione CEI del 2008 è un grande miglioramento rispetto alla vecchia).
Buon Natale a tutti quelli che passeranno di qui.

lunedì 24 ottobre 2011

Rimettere debiti o peccati?

Di solito, chi sostiene che i testi evangelici dipendano da originali semitici (ebraici o aramaici) fa appello a una famosa richiesta del Padre Nostro che compare in modo leggermente diverso nelle due versioni matteana e lucana. Il primo evangelista dice "rimetti a noi i nostri debiti" (in 6:12), mentre Luca ha (in 11:4) "perdona a noi i nostri peccati". Ho riportato qui le traduzioni della CEI2008, ma devo dire che la resa di Lc 11:4 non è molto felice, perché il verbo greco è uguale a quello di Matteo (afiemi) e quindi sarebbe stato meglio mantenere "rimettere" in entrambi i casi (come faceva, ad esempio, la vecchia Diodati). Chi ritiene che dietro la preghiera ci fosse un originale semitico sostiene che la differenza fra i due Vangeli dipende da un aramaico hoba, termine che ha sia il significato di "debito" (quindi ofeilema, in Matteo) che quello di "peccato" (hamartia, in Luca).
Trovo, tuttavia, che questo modo di vedere le cose sia problematico. Prendo come esempio lo studio più recente in cui ho trovato sostenuta questa posizione, Sin: a History, pubblicato nel 2009 da Gary Anderson, professore di Antico Testamento all'Università di Notre Dame. Alle pagine 31-32 del volume, Anderson asserisce che "i termini che Matteo usa per descrivere la remissione dei peccati sarebbero parsi inusuali ad un parlante greco". In realtà, afiemi e ofeilema, usati in questo modo, non avrebbero potuto apparire affatto strani ad un greco. In un mio articolo, recentemente pubblicato sul Catholic Biblical Quarterly, mi pare di aver mostrato che tale terminologia compare in decreti di amnistia che i sovrani ellenistici di solito emanavano per festeggiare la loro ascesa al trono o altri momenti chiave di loro regni (ad esempio, vittorie militari). L'Egitto ci ha conservato diverse copie di questi documenti ufficiali, che avevano grande importanza perché cancellavano tutti i reati penali per l'anno corrente oltre ai debiti dovuti alla corona e perfino ai privati (si può leggere un esempio frammentario - ma molto simile alla fraseologia del Padre Nostro - qui e l'inzio di un altro editto del secondo secolo a.e.v. qui).
E' molto problematico, come fa Anderson, presupporre che il testo di Matteo debba avere un senso "religioso" (cioé, che debba riguardare i "peccati"), quando a un lettore antico doveva apparire immediatamente collegato alla sfera economica. Si tenga presente anche che l'accostamento a questi decreti reali ellenistici non può essere giudicato estemporaneo, perché tutta la preghiera, a partire dalla menzione della basileia ("regno"), sembra presentare Dio utilizzando i temi tipici della propaganda monarchica ellenistica. Nella prospettiva ideologica che troviamo in numerosi trattati, iscrizioni e proclami di vario genere i sovrani sono presentati spesso come garanti dell'ordine cosmico e investiti della regalità non solo in virtù della loro potenza militare, ma soprattutto per la responsabilità che esercitano nel proteggere i loro sudditi in momenti di difficoltà, fornendo loro pane in occasione di carestie o liberandoli da oneri finanziari quando questi diventano troppo pesanti. Credo che Anderson non possa invocare nemmeno Luca a sostegno della sua lettura, perché il terzo evangelista certamente "spiritualizza", ma lo fa ancora una volta utilizzando un termine (hamartia) che deriva (con probabile mediazione della LXX) dagli stessi decreti, laddove essi si riferiscono all'amnistia dei reati penali.
Mi pare, in conclusione, che non sia possible provare l'esistenza di un supposto sostrato semitico facendo ricorso al testo del Padre Nostro; questo ovviamento senza pregiudizio sulla questione della appartenenza del testo al Gesù storico o della lingua in cui lo stesso Gesù storico predicò.    

martedì 27 settembre 2011

Critica ideologica e Nuovo Testamento


La recente discussione con due lettori, seguita a un mio post sull'episodio matteano della siro-fenicia, mi ha sollecitato a riprendere alcune letture che avevo fatto e poi accantonato durante l'estate. In particolare, credo sia opportuno porsi delle domande serie sui limiti dell'indagine storico-critica e sul posto che questa stagione ha occupato e occupa nella storia delle letture della Bibbia. Ho trovato molto utile e stimolante un lunghissimo articolo (piu' di 90 pagine, divise in tre parti - quasi un breve saggio, a questo punto) pubblicato nel 2010 da Stephen Moore, professore di Nuovo Testamento alla Drew University, e Yvonne Sherwood, professore di Bibbia, religione e cultura alla universita' di Glasgow, sulla rivista Biblical Interpretation. Il significativo titolo del lavoro e' "Biblical Studies 'After' Theory: Onwards Towards the Past" ("Studi biblici 'dopo' la teoria: avanti verso il passato"). L'articolo ha l'ambizioso obiettivo di fare una storia della ricerca biblica moderna e, al tempo stesso, di proporre alcune prospettive per il lavoro futuro "dopo" che il panorama degli studi biblici sarebbe stato rivoluzionato dall'introduzione della "teoria" (con questo termine, almeno in ambito americano, si indica tutto un armamentario di elaborazioni teoriche - vuoi femministe, vuoi neo-marxiste, vuoi post-coloniali... - che avrebbero "spodestato", ma in realta' niente e' piu' lontano dal vero, il vecchio approccio storico-critico).
E' impossibile riprendere tutti i contenuti dell'articolo qui, ma vorrei concentrarmi soprattutto sulla seconda parte, che ha come sottotitolo "The Secret Vices of the Biblical God" ("I vizi segreti del Dio biblico"). I due autori sostengono, con buone ragioni mi pare, che la "rottura" fondamentale nella storia dell'interpretazione biblica avviene nel periodo dell'Illuminismo non, come viene usualmente sostenuto, sulle questioni tecnicamente "storiche" (per esempio, autenticita' o integrita' dei testi), ma sulla accettabilita' "morale" della Bibbia. In modo grossolano, si viene a dire che, se il Dio della Bibbia agisce in modo moralmente inaccettabile (e gli esempi non mancano), allora i testi sacri non possono avere la pretesa di essere presentati come necessari strumenti di salvezza e tantomeno come patrimonio universale dell'umanita'. In tale prospettiva, l'intera ricerca storico-critica edificata nel diciottesimo secolo appare come un tentativo di "distogliere" l'attenzione dalle questioni veramente fondamentali che rimangono tuttavia irrisolte.
Se vogliamo un esempio, si puo' riprendere la pericope, menzionata sopra, di Mt 15:21-28. Possiamo discutere molto approfonditamente sul problema, comunque significativo in se stesso, dell'attribuzione di questo episodio al Gesu' storico, ma, secondo Moore e Sherwood, questo e' solo uno specchietto per le allodole, che intende "occultare" il vero problema del modo brutale e offensivo in cui il divino Gesu' tratta una donna, a differenza dei molti interlocutori di genere maschile. In modo meno rozzo di quanto sia stato fatto dai critici illuminsti e come conseguenza di un grande cambiamento nella composizione e nelle aspettative del pubblico al principio del ventunesimo secolo, questo e' il tipo di domanda che viene formulata all'interno di una critica ideologica della Bibbia. Chiedersi se l'autore del Vangelo di Matteo sia stato guidato da una ben precisa ideologia dei generi e dei loro rapporti porta, quindi, anche a mettere in discussione in che termini sia "utile" la lettura del testo prodotto da Matteo e, su un piano piu' teologico, in che modo si debba pensare l'ispirazione di uno scritto ritenuto veicolo di una rivelazione divina.

martedì 24 maggio 2011

Sin


Su consiglio di un collega, che conosce i miei attuali interessi di ricerca, ho cominciato a leggere "Sin. A History" ("Peccato. Una storia") di Gary Anderson, professore di Antico Testamento/Bibbia ebraica all'universita' di Notre Dame. Siccome il libro merita in effetti un'attenta lettura, ho deciso di farne un resoconto in piu' puntate sul blog.
"Sin" e' una storia del peccato, nel senso che Anderson studia questo concetto analizzando i termini e le metafore con cui esso e' stato espresso e pensato in un arco temporale ambizioso che va dai piu' antichi stadi di formazione della Bibbia ebraica fino ai primi secoli della nostra era. Il volume si divide in tre parti e la prima (pp. 3-42), che riassumero' oggi, ha l'appropriato titolo di "Introducing the Problem" ("Introdurre il problema"), perche' vi sono enunciati tutti i temi principali che poi saranno ripresi successivamente.
Anderson osserva che, nei libri piu' antichi della Bibbia, il concetto di peccato e' associato con varie metafore e simboli, che vanno da quelli della "macchia" da ripulire o coprire a quelli del peso che graverebbe sugli esseri umani nel caso in cui una norma venga violata (esempi addotti da Anderson sono Lv 5:1 e 24:15). Lo stessa concezione si trova anche nel caso di un perdono o di una remissione del peccato, che vengono concettualizzati come "rimozione" di un peso (anche qui Anderson menziona Gn 50:17 e Es 10:17: e' curioso notare che le traduzioni in genere oscurano questo secondo aspetto del simbolismo non rendendolo mai in modo letterale).
Quando Israele cade sotto l'influenza persiana (VI secolo) e l'aramaico, lingua dell'impero, diventa predominante a livello culturale, la situazione cambia significativamente. Il simbolismo del "peso" viene sostituito quasi completamente da quello del "debito" e, di conseguenza, il peccato comincia ad essere inteso come un impegno finanziario che deve essere ripagato o condonato. I "targumim", antiche traduzioni aramaiche dei libri biblici, attestano questo mutamento in modo assai chiaro, ma Anderson individua il medesimo fenomeno a Qumran e fra i primi testi cristiani. Alla mente del lettore italiano (ma meno a quella dell'inglese) verra' senz'altro il Padre Nostro, ma anche la parabola di Mt 18:23-35 offre un buon esempio di tale concezione.
In generale, la tesi di Anderson mi pare convincente: ci sarebbero dei punti specifici (per esempio, la lettura del Padre Nostro) su cui non sono particolarmente convinto, ma sono aspetti minori. Una questione piu' fondamentale e' quella del quadro interpretativo scelto da Anderson: rifacendosi a Riceour, l'autore giustamente sottolinea che metafore e simboli non sono meri aspetti decorativi, ma costituiscono la sostanza stessa del modo in cui i concetti vengono pensati. Tuttavia, mi pare necessario ricondurre anche l'evoluzione dei simboli e delle forme espressive alle loro radici storiche e socio-politiche. Questo e' tanto piu' vero in questo caso, in cui lo stesso Anderson sottolinea la coincidenza fra modifica del simbolo ed avvento dell'imperialismo persiano prima e greco poi: non mi pare casuale che, proprio in coincidenza con questi eventi, anche l'immagine di Dio diventi quella assoluta e capricciosa di Mt 18.

venerdì 6 maggio 2011

La Bibbia di Matteo


Negli ultimi anni, lo studio delle citazioni, eco e allusioni bibliche nel Nuovo Testamento e' diventato un ambito di ricerca sempre piu' frequentato. Si scrivono libri e dissertazioni, trovando legami anche tenuissimi fra passi neotestamentari e la Bibbia ebraica. Tuttavia, dal punto di vista storico, molto spesso queste ricerche sono condotte senza un'adeguata attenzione per i dati testuali e soprattutto per quello che conosciamo sulla circolazione e consultazione dei libri nell'antichita'.
Il Vangelo di Matteo costituisce un caso molto interessante, perche' il racconto a tratti (per esempio, nei primi due capitoli) sembra essere veramente "strutturato" attorno ad una sequenza di citazioni bibliche, che sono introdotte con una formula apposita ("perche' si compisse cio' che era stato detto per mezzo del profeta"). In alcune occasioni, tuttavia, emergono problemi significativi. Per esempio, in Mt 2:23 la formula introduce una citazione ("Sara' chiamato Nazareno") che non si trova da nessuna parte nella Bibbia ebraica, nonostante i grandi sforzi profusi dagli esegeti e nonostante il fatto che Matteo dica che questo sarebbe stato "detto per mezzo dei profeti". Ancora, in Mt 27:9 una citazione tratta dal libro di Zaccaria (11:12-13) viene erroneamente attribuita al profeta Geremia.
Questi fenomeni si spiegano se si ipotizza che Matteo non citi direttamente dalla Bibbia ebraica, ma da una raccolta di "testimonia", una collezione di versetti trascelti dalla Bibbia e raggruppati seguendo un determinato filo logico (in questo caso, probabilmente, un canovaccio della storia di Gesu'). I paralleli non mancano sia in ambito giudaico (i pesharim ritrovati a Qumran) sia in ambito cristiano (nell'Epistola di Barnaba, in una raccolta molto antica attribuita a Cipriano di Cartagine e, piu' recentemente, in un papiro relativamente tardo di cui da' notizia Larry Hurtado sul suo blog).
L'ipotesi spiega come mai Matteo conosca il testo di Zaccaria, ma non la sua provenienza. Al tempo stesso, e' ragionevole immaginare che Matteo abbia usato una maneggevole raccolta di "testimonia" che poteva stare su una tavoletta o su pochi fogli di papiro. L'idea che l'evangelista pescasse versetti saltando qua e la' in una voluminosa Bibbia dipende piu' dall'uso che i moderni esegeti fanno di database elettronici che una reale conoscenza di quanto voluminosi erano e di come venivano utilizzati i libri nell'antichita'.

domenica 1 maggio 2011

Tirare per la giacchetta il semitico


In un post recente sul suo blog, padre Scalese offre ancora una volta alcune osservazioni interessanti sulla nuova traduzione CEI della Bibbia. Vorrei fare alcune considerazioni sul punto 3, che riguarda piu' l'interpretazione che la traduzione di due passi chiave della Passione secondo Matteo.
Il primo versetto preso in considerazione e' Mt 26:28 in cui l'espressione greca "peri polloi" viene intesa come riferita a tutta l'umanita' (per cui viene versato il sangue di Gesu'), in forza della costatazione che "tutti gli esegeti ci assicurano che 'per molti' e' in realta' un semitismo che significa in realta' 'per tutti'" (parole di Scalese). Qui e' opportuno correggere padre Scalese, perche' non e' vero che tutti gli esegeti sostengono questa posizione: per esempio, Luz, che e' solo il piu' recente che ho letto, non ritiene l'espressione un semitismo e non pensa che significhi "per tutti". Lo stesso Jeremias, che e' stato uno degli iniziatori della via "semitica" e che prediligeva queste retroversioni, in quanto casualmente finivano sempre per "dimostrare" la correttezza delle sue esegesi (spesso e volentieri di chiaro stampo anti-giudaico), ammette che in ebraico o aramaico le espressioni equivalenti qualche volta possono voler dire "tutti", ma che questa ovviamente non puo' essere la regola.
Ma allora come arriviamo alla interpretazione "per tutti"? Vale la pena di dare ancora un'occhiata a Jeremias: anche per lui la soluzione non e' linguistica, ma dipende dal fatto che, secondo lui, Mt 26:26-28 dipenderebbe da Is 53:11-12, in cui ci viene detto che il servo sofferente ha portato il peccato di "molti". Non e' il caso di riprendere la questione dei rapporti fra questo passo d'Isaia (molto importante per i cristiani, perche' e' praticamente l'unico della Bibbia ebraica in cui forse si parla di espiazione dei peccati ad opera di un Messia sofferente) e Mt 26:26-28: la connessione e' molto tenue, visto che praticamente nessuna parola identica si trova nei due testi.
Tuttavia, anche accettando il legame suggerito da Jeremias, e' paradossale vedere come proprio questo offra un argomento molto forte contro l'esegesi "semitica". Di Is 53:11-12 possediamo una traduzione greca (quella dei Settanta) e vale la pena di domandarsi: se l'ebraico "rabbim" aveva proprio questo chiaro significato di "tutti", come mai i traduttori, che non brillavano certo per il loro letteralismo, l'hanno tradotto per ben tre volte nello spazio di due versi con "polloi"?
E' interessante domandarsi quale sia il supporto ideologico di queste esegesi fondate sulle retroversioni semitiche, dal momento che il loro valore storico e' tanto scarso. Ho formulato tre ipotesi provvisorie.
Anzitutto, discutendo della cosa con un collega, lui mi faceva notare che un peso notevole deve avere ancora l'idea che l'ebraico sia una "lingua divina". In secondo luogo, ritornare all'originale semitico e' un po' parte dell'utopico tentativo di tornare al Gesu' storico (combinato con il "dogma", secondo il quale Gesu' avrebbe parlato solo aramaico). Infine, l'impressione piu' sgradevole, ma dalla quale e' purtroppo difficile liberarsi quando si leggono esegesi come quelle di Jeremias, e' che si tratti di un'altra forma di supersessionismo. Come i cristiani si appropriano della Bibbia degli ebrei, cosi' possono fare anche con la loro lingua, dimostrando che gli ebrei non solo non sono stati capaci di capire il "vero" significato dei libri che consideravano sacri, ma anche della lingua stessa in cui erano scritti.

venerdì 15 aprile 2011

Giudaismo e cristianesimo secondo Amy-Jill Levine


Il magnifico blog "Women in Theology" postava un paio di settimane fa un video di una conferenza di Amy-Jill Levine, professore di Nuovo Testamento alla Vanderbilt Divinity School, dedicato al tema delle relazioni fra giudaismo e cristianesimo con particolare attenzione alle loro Scritture (sempre dallo stesso blog, per chi fosse interessato, segnalo anche una notevole critica al nuovo volume du Gesu' di Ratzinger e una serie di post in difesa di Elizabeth Johnson, la teologa della Fordham University un cui libro e' stato recentemente censurato dalla Conferenza episcopale degli USA e di cui si e' parlato, molto a sproposito, su alcuni blog italiani negli scorsi giorni).
Levine certamente si distingue nel panorama degli studi neotestamentari per la incisivita' delle proprie posizioni: anche in questo caso, cio' che dice non puo' che risultare convincente. Con tono lieve, ma sicuro, Levine mostra come il modo in cui, di recente, le chiese cristiane hanno cercato di avvicinarsi al giudaismo non sia altro che una nuova forma di assimilazione. Questo e' vero tanto per l'abitudine (diffusa ormai anche in Italia) di celebrare il Seder pasquale nelle chiese quanto per l'uso accademico di chiamare l'Antico Testamento "Bibbia ebraica" (mentre e' vero che i due termini non sono affatto intercambiabili: basta dare un'occhiata alle traduzioni di Is 7:14).
Tuttavia, c'e' un aspetto per cui il ragionamento di Levine mi sembra limitato: nel mondo non esistono solo istituzioni ecclesiastiche, ma anche singoli credenti. La separazione netta fra tradizioni giudaiche e cristiane che sembra piacere a Levine puo' rivelarsi una costrizione soffocante per le persone che vivono la loro esperienza religiosa "a mezza strada" e scelgono di leggere i loro testi sacri in modi che magari non sono quelli della maggioranza.
Non e' un caso, credo, che le interpretazioni di Levine divengano piu' problematiche verso la fine della sua lezione, quando il nodo della "salvezza" viene al pettine. Per esempio, al famigerato Gv 14:6 (che presenta Gesu' come l'unica via) Levine oppone la famosa scena di giudizio in Mt 25:31-46, in cui sembra che siano gli atti di carita' a essere il criterio decisivo. Pero', bisogna ricordare che il testo matteano dice che sono le azioni compiute verso i "fratelli" ad essere ricompensate: da questo particolare molti interpreti hanno ricavato la conclusione che a contare e' solo quello che viene fatto ad altri cristiani. Chi ha ragione?
Levine conclude la sua discussione con la suggestiva immagine delle rotaie che si incontrano, ma proprio questa "visione" di parallelismi convergenti si fonda sull'idea che giudaismo e cristianesimo siano due realta' essenzialmente separate e distinte. In realta', le due tradizioni (le "rotaie") sono costruzioni di uomini e donne che hanno bisogno di queste narrazioni per vivere le loro esperienze religiose. Invece, giudaismo e cristianesimo sono piuttosto due galassie che si sovrappongono, si intersecano e spesso risultano indistinguibili. I singoli esseri umani si posizionano su questo spettro in punti diversi e senza che sia possibile, se non a posteriori e in modo artificiale, dividerli nettamente in due gruppi distinti.

sabato 9 aprile 2011

Un racconto su due figli


Matteo 21:28-31 contiene una breve, ma famosa, parabola in cui un padre chiede ai suoi due figli di andare a lavorare nella vigna. Il passo, apparentmente assai lineare, nasconde notevoli difficolta' testuali che ne fanno quasi un caso perfetto per una discussione metodologica. I piu' importanti testimoni sono divisi in tre gruppi e, data l'impossibilita' di decidere quale sia preferibile, chiariscono bene come le testimonianze testuali a nostra disposizione siano solo parzialmente affidabili e come le questioni di critica testuale siano profondamente legate a quelle esegetiche.
Il testo greco che si legge nelle correnti edizioni critiche (e nelle traduzioni che da esse dipendono) e' quello del codice Sinaitico. Il codice Vaticano, invece, inverte l'ordine delle risposte dei due figli (il primo dice si' e poi non va, mentre il secondo dice no e poi va) e, di conseguenza, la riposta degli interlocutori di Gesu' diventa "il secondo" anziche' "il primo". In un articolo apparso nel 2001 su "New Testament Studies" ("A Tale of Two Sons: But Which One Did the Far, Far Better Thing? A Study of Matt 21.28-32"), Paul Foster, professore dell'Universita' di Oxford, sostiene che non si puo' scegliere su basi solamente testuali (i due gruppi di testimoni sono ugualmente "forti"), ma che la versione del Vaticano pare piu' coerente con la tendenza generale di Matteo nel capitolo 21 e in quelli attorno. In molte delle parabole (come quella dei lavoratori nella vigna o quella degli invitati al benchetto di matrimonio) viene introdotta una comparazione fra quelli che sono chiamati per primi, ma non accettano, e quelli che sono chiamati per secondi e accettano: non c'e' bisogno di specificare che gli uni rappresentano Israele e gli altri in Gentili.
Mi ha stupito notare che quasi tutti escludono senza molta discussione la terza variante, che si legge, fra gli altri, nel famoso codice Beza. Qui l'ordine e' il medesimo del Sinaitico, ma la risposta degli interlocutori di Gesu' e' che a far meglio e' stato il secondo figlio, quello che ha risposto si' e poi non e' andato. Molti critici osservano che questa storia non ha molto senso, ma questo dovrebbe essere un motivo per considerarla originale (come lectio difficilior) e non per escluderla. Tuttavia, credo che ci possano essere elementi per dare una spiegazione anche per la versione Beza. Subito prima del passo in questione, Matteo ha detto che i sacerdoti e gli anziani del popolo si sono rifiutati di dare una riposta ad un quesito posto da Gesu' (vv. 25-27), perche' ipocriticamente temevano che dire la verita' li avrebbe messi in cattiva luce. Lo stesso si verifica anche nel caso della scelta fra i due figli: pur di non ammettere il loro torto i capi di Israele danno una riposta palesemente sbagliata e rivelatrice della loro fondamentale doppiezza. Il testo, in questo modo, si adatterebbe molto bene al generale spirito anti-giudaico che pervade questi capitoli di Matteo.

giovedì 7 aprile 2011

Ulrich Luz e l'anti-giudaismo di Matteo


Nel suo splendido commento a Matteo, Ulrich Luz, gia' professore di Nuovo Testamento a Berna, affronta con estrema onesta' e coraggio il tema ostico del notevole anti-giudaismo presente in numerosi passi del Vangelo. Non si fanno sconti e l'analisi d Luz mette bene in chiaro quali siano state le responsabilita' degli interpreti di Matteo, ma anche come l'ostilita' nei confronti del giudaismo sia gia' cominciata al livello della composizione del Vangelo, tralignando rispetto al messaggio del Gesu' storico, fondamentalmente basato sull'amore.
Tuttavia, anche l'atteggiamento rigoroso di Luz puo' nascondere problemi. In particolare, vorrei dire due parole sulla sua ricostruzione della "storia" della comunita' che starebbe dietro al Vangelo. Secondo Luz, dietro la vicenda di Gesu' raccontata in Matteo, si potrebbe vedere "in trasparenza" la complicata odissea di una comunita' originariamente giudeo-cristiana e residente in Giudea, che fu poi costretta a muoversi in Siria e a cominciare un'attivita' missionaria rivolta ai Gentili. Scrivere le storie di queste comunita' che starebbero "dietro" ai libri del NT e' una delle passioni dei neotestamentaristi e l'ho gia' criticata altrove per motivi di ordine metodologico: pero', nel caso specifico, credo che questa ricostruzione crei delle ulteriori difficolta'.
Luz ritiene che il passaggio dalla prima alla seconda fase nella storia della comunita' coincida con un "trauma", l'allontanamento forzato dal giudaismo. Il Vangelo descriverebbe il "trauma" come una persecuzione. Si prenda, ad esempio, il passo di Mt 10:17-20, in cui, pero', come nota acutamente lo stesso Luz ci sono elementi che mal si adattano all'idea di una persecuzione da parte giudaica (i riferimenti all'essere condotti davanti a "re e governatori" o alla testimonianza resa davanti ai Gentili). Siccome, a parte episodici riferimenti tutti in fonti di parte cristiana, non abbiamo molte informazioni su queste persecuzioni giudaiche, viene da domandarsi se il tutto non sia una efficace costruzione retorica. Tenendo presente il modello offerto dalla vicenda del Gesu' matteano e il fatto che l'intero capitolo 10 e' focalizzato sull'incitare i lettori alla dedizione assoluta allo stile di vita e alla missione comunitaria, l'ipotesi non appare poi cosi' peregrina.
Ovviamente, dal punto di vista dell'anti-giudaismo, cambia molto se passiamo da uno scenario in cui l'ostilita' matteana puo' essere letta come reazione a una persecuzione a uno in cui gli Ebrei sono descritti come minacciosi soprattutto perche' e' facile far loro recitare la parte dei "cattivi" quando si deve scrivere il copione di una buona storia.

giovedì 17 marzo 2011

Il centurione e il suo boytoy


Il Censore, sul suo blog, ha pubblicato qualche giorno fa un interessante post dedicato alla questione dell'omosessualita' nella Bibbia, letta in una prospettiva a cui non siamo certo abituati. Si tratta dell'esegesi di alcuni passi proposta da una chiesa americana come modo per opporsi alla banale equazione fra fede religiosa e discriminazione delle persone sulla base dei loro orientamenti sessuali.
Il primo passo proposto (la storia di un centurione che accosta Gesu' per chiedergli una guarigione, in Mt 8:5-13) e' stato di recente esaminato anche nel mio corso sul Vangelo di Matteo. Ho scoperto di aver proposto ai miei studenti la stessa chiave di lettura, prendendo spunto, pero', da un articolo pubblicato nel 2004 sul Journal of Biblical Literature (probabilmente la piu' importante rivista mondiale nel settore degli studi biblici) da Theodore Jennings e Tat-Siong Benny Liew, due professori del Chicago Theological Seminary. Il titolo del contributo e' "Mistaken Identities but Model Faith: Rereading the Centurion, the Chap, and the Christ in Matthew 8:5-13" ("Identita' malcomprese ma fede modello: rileggendo il centurione, il 'tipo' e il Cristo in Mt 8:5-13"). Come osserva anche il Censore, la questione centrale e' la traduzione del termine pais, che la maggioranza delle traduzioni rendono con "servo". I due professori di Chicago conducono un'analisi serrata e del tutto convincente del modo in cui Matteo usa questo e altri termini collegati, per arrivare a stabilire alcune interessanti conclusioni. La piu' importante qui e' che pais, in questa pericope, non puo' essere il semplice "servo" o "schiavo" (lo stesso Matteo usa un altro termine, doulos, per indicare questo al v. 12). Pais e', invece, probabilmente il giovane, elemento passivo di una relazione omosessuale, secondo un uso del termine che e' ampiamente attestato nella letteratura greca.
Tale interpretazione si adatterebbe perfettamente al contesto storico, in cui relazioni di questo genere (che erano, peraltro, assai comuni in generale) appaiono sovente presso i militari romani a cui la legge, fin dai tempi di Augusto, proibiva il matrimonio per il lungo periodo della ferma. Tra l'altro, una lettura di questo genere spiegherebbe anche in modo piu' adeguato come mai un centurione romano si umili fino al punto di chiedere aiuto ad un suddito ebreo: si tratta di un azione non certo di poco conto in un contesto sociale dominato dal valore dell'onore.
In alcuni casi, un'attenta ricerca storica puo' aiutare a riscoprire significati di un testo che secoli di pregiudizio avevano invece offuscato.

lunedì 7 marzo 2011

Nuovo Testamento e comunita'


Ho trascurato un po' il blog perche' la settimana passata sono stato brevemente in Italia, invitato a partecipare a un colloquio sulla Seconda lettera di Pietro organizzato alla Facolta' teologica di Sicilia "San Giovanni Evangelista", a Palermo. Il viaggio e' stato molto stancante, ma devo ringraziare di cuore gli organizzatori (in particolare, Rosario Pistone, professore di Nuovo Testamento), per avermi dato la possibilita' di visitare ancora una volta una citta' bellissima e, soprattutto, di prendere parte a discussioni davvero stimolanti ed interessanti. Devo dire di essere stato molto impressionato dal clima di grande vitalita' intellettuale che ho trovato a Palermo.
Fra le molte questioni discusse nel colloquio, e' emersa piu' di una volta quella, metodologicamente fondamentale, delle comunita' che gli studiosi di Nuovo Testamento tendono a ricostruire "dietro" i testi. Avendo insegnato, negli ultimi due anni, corsi su i Vangeli di Giovanni, Tommaso e Matteo ho avuto modo di confrontarmi spesso con questo tipo di opzione esegetica e le mie perplessita' sono andate via via crescendo. Do qui conto, in breve, dei maggiori problemi che mi si presentano quando comincio a sentir parlare di comunita' giovannea, matteana e cosi' via.
Una prima difficolta' dipende dal fatto che, spesso, quando un esegeta parla di comunita' tende a prendere questo termine in un'accezione molto "forte": si arriva quindi a postulare un gruppo che ha un comune sentire e condivide monoliticamente idee ed esperienze. Tuttavia, tutti i gruppi che conosciamo direttamente o per via storica dimostrano il contrario: ogni membro del gruppo ha percezioni e convinzioni diverse, condizionate dalle molte differenze di condizione sociale, cultura, genere, etnia e cosi' via. Gli esegeti tendono a proiettare su tale comunita', interamente ricostruita a partire dall'unico testo in nostro possesso, le loro rispettive interpretazioni del testo stesso, dimenticando spesso e volentieri che le interpretazioni di un Vangelo devono essere state molteplici gia' a livello della "comunita' originaria". Le cose si fanno ancora peggiori quando questa "comunita' originaria" viene usata per risolvere passaggi esegeticamente difficili, come se si trattasse di una effettiva evidenza storica e non di una conveniente ipotesi di indagine (il commentario di Luz, pur molto bello, e' pieno di passaggi in cui una certa interpretazione viene esclusa, perche' la "comunita' matteana non avrebbe potuto pensare questo"!).
La mia seconda perplessita' e' legata a quanto appena detto, dal momento che trovo sempre piu' problematica l'abitudine di postulare comunita' nascoste "dietro" i personaggi del NT e poi di scrivere la storia dei loro rapporti storici sulla base delle relazioni fra i personaggi fittizi di uno scritto. Casi clamorosi sono quelli di Pietro, Tommaso e il cosiddetto "discepolo amato" nel Vangelo di Giovanni. A Palermo, nel corso di una discussione, mi e' stata posta la questione del capitolo 21, che conclude il quarto Vangelo e sembra introdurre una riconciliazione fra i personaggi di Pietro e del discepolo amato. Non dico che non si possa ipotizzare che il capitolo sia stato aggiunto alla fine come un tentativo di riavvicinare comunita' "giovannea" e comunita' "petrina", ma chi ci dice (visto che non abbiamo altre informazioni su queste due ipotetiche comunita') che invece non si tratti semplicemente di un capitolo scritto per insegnare come si devono comportare i capi delle comunita' (Pietro) e qualche altra dottrina escatologica legata alle profezie sulla morte del "discepolo amato"?

domenica 20 febbraio 2011

Cosa cercare in una predica?


Alcuni giorni fa sono stato a cena con alcuni colleghi e poi ho chiaccherato un po' con uno di loro sulla via verso casa. Il collega in questione si occupa di una religione non cristiana, ma al tempo stesso e' anche un sacerdote cattolico: quando siamo scivolati a parlare di lavoro, io gli ho detto che sto insegnando un corso sul Vangelo di Matteo e lui si e' mostrato interessato, perche' gli capita spesso di predicare su passi di Matteo in queste domeniche dell'anno liturgico.
Mi ha quindi raccontato di aver recentemente commentato i versetti del "discorso della montagna", in cui Gesu' proibisce il divorzio (Mt 5:31-32). Mi ha detto di aver sottolineato come il testo in effetti non usi il termine "divorziare", ma piuttosto qualcosa che suona come "buttare via": questo vorrebbe dire che Gesu' non intendeva condannare tanto il divorzio in se' quanto un atteggiamento di scarso rispetto nei confronti delle donne. Al mio collega premeva mettere l'accento su questo punto, perche' sapeva che nella sua comunita' ci sono molte persone divorziate e non voleva essere troppo duro.
Devo confessare di essere rimasto senza parole: il termine che viene usato nei due versetti in questione (apoluo, in greco) e' infatti un vocabolo che ricorre sistematicamente nei documenti per indicare tutte quelle occasioni in cui un contratto e' reso nullo o un certo rapporto viene legalmente interrotto (ad esempio, quando un soldato viene congedato). Questi dati inducono a ritenere che, anche nel passo di Matteo, il verbo sia usato con il suo senso tecnico legale, per indicare proprio il "divorzio" e non metaforicamente una scarsa attenzione per le esigenze delle donne. Anzi, se si ritiene (come fanno molti) che questo comando derivi dal Gesu' storico, la formulazione di Mt 5:32 denota tutt'altro che attenzione per le esigenze delle donne, quali soggetti deboli in tutti i casi di divorzio nell'antichita'. Nel contesto della societa' antica, la proibizione di sposare una donna che abbia subito un divorzio o una separazione avrebbe creato una massa di donne abbandonate e quindi prive di qualunque sostegno sociale ed economico, ma a cui Gesu' proibirebbe di dare o di trovare assistenza nel modo socialmente piu' accettabile e naturale.
Come detto, sono rimasto senza parole di fronte al fatto che un intero dibattito storiografico rimanesse ignorato e che, al contrario, venissero presentati come dati storici elementi che non lo sono affatto. Cio' mi ha sorpreso tanto piu' in quanto veniva da una persona la cui competenza, in un altro campo, e' degna del massimo rispetto. Non voglio pero' dire che questo sia un caso isolato: purtroppo, e' cosa che si tocca con mano quasi ogni domenica.
Qualcuno mi ha ricordato (e sono d'accordo nella sostanza) che le prediche domenicali non sono adatte per fare lezioni di storia e che le aspettative sono ben altre, ma e' proprio questa la domanda a cui non so dare risposta: quali sarebbero, dunque, queste aspettative? Nello specifico, io approvo quello che il collega cercava di comunicare al suo uditorio, ma c'era bisogno di proporlo come dato storico (e a prezzo di massacrare la storia)? Esistono metodi alternativi e altrettanto efficaci?

martedì 15 febbraio 2011

Le donne nella genealogia di Gesu'


Negli ultimi giorni mi capita spesso di imbattermi nel problema esegetico delle quattro donne nominate da Matteo nella genealogia (altrimenti tutta maschile) che apre il suo Vangelo. Nella puntata di "Uomini e profeti" del 30 gennaio scorso, Flavio Dalla Vecchia, professore di Sacra Scrittura presso lo Studio teologico di Brescia, commentando la storia di Raab (in Giosue' 2), dice che la prostituta e' associata a Maria da Matteo, per lo scarso "decoro" delle loro rispettive vicende. Poi, ho letto sul blog "Libero Arbitrio" dell'intervento di Camillo Langone ad una recente manifestazione di sostegno a Berlusconi: in sostanza, la genealogia di Gesu' dimostrerebbe che Dio accetta tutti, "santi e peccatori", nel suo disegno di perfezione che culmina in Gesu'.
In entrambi questi casi, viene ripresa una delle due piu' diffuse proposte avanzate dagli esegeti per risolvere il problema delle quattro donne nominate da Matteo. Questo particolare del Vangelo e' tanto piu' strano in quanto, in una genealogia di questo tipo, ci si aspetterebbe di trovare i nomi delle grandi matriarche di Israele (Sara, Rebecca, Rachele...) e non quelli, bene o male minori, di Tamar, Raab, Rut e Betsabea. Una soluzione esegetica molto diffusa e', come dicevo, quella di pensare che i quattro nomi siano legati dal fatto di aver avuto vicende sessuali "particolari" (come dice ancora Dalla Vecchia). La cosa e' senz'altro vera per quanto riguarda Raab, data la professione, e Betsabea, in virtu' del famoso adulterio con Davide. Si discute molto sul caso di Tamar, che di fatto non fa nulla di riprovevole dal punto di vista morale, ma certo Rut sta malissimo dentro questo quadro: per lei, anziche' di mancanza di decoro, le fonti parlano di un comportamento modello.
Ovviamente, i problemi piu' grossi nascono quando si deve arrivare a inserire Maria, la madre di Gesu', in questa lista, visto che praticamente per tutti le donne sono nominate nella genealogia per "preparare" il passaggio conclusivo e la "irregolare" discendenza di Gesu' da una linea femminile anziche' maschile. Per molti, se le altre quattro donne sono state scelte a motivo dei problemi nella loro condotta sessuale, questo e' anche il punto che Matteo intende sottolineare a proposito di Maria. A tale proposito, di solito si fa riferimento alla notizia (che emerge piu' tardi nelle fonti antiche) secondo la quale Gesu' sarebbe il frutto di una relazione adulterina con un soldato romano. Matteo sarebbe a conoscenza della diceria e metterebbe le mani avanti, mostrando che anche nella gloriosa storia di Israele non siano mancati episodi analoghi.
Ovviamente, diviene interessante capire come Langone abbia risolto questo passaggio esegetico e sia arrivato (stando a quanto riferisce il blog citato sopra) a definire Maria "donna perfetta". Se ha fatto ricorso al vecchio e onorato principio mediterraneo secondo il quale "tutte le donne sono puttane, tranne mia madre e mia sorella", e' difficile capire come possa accusare altri di essere moralisti e puritani.

domenica 13 febbraio 2011

Proibire l'ira?


La scorsa settimana, leggendo il "discorso della montagna" (Mt 5-7), mi e' capitato di riflettere sulla proibizione dell'ira che si legge in Matteo 5:22 e sulla storia dell'interpretazione di questo comando di Gesu'. Giustamente Luz fa notare nel suo commentario che la storia dell'esegesi di questo passo e' praticamente una sequela di tentativi di trovare una via per aggirare l'estremo rigore di quello che Gesu' chiede di fare.
Avevo assegnato agli studenti come oggetto di riflessione il modo in cui Agostino tratta Mt 5:22, perche' mi sembra abbastanza rappresentativo. Il vescovo di Ippona si occupa della questione una prima volta nel suo De sermone Domini in monte, ma e' interessante notare che, in quest'opera, Agostino commenta la versione latina pre-Vulgata del versetto, che dice: "Chiunque si adira con il proprio fratello senza ragione...". Il "senza ragione" e' un'aggiunta che si trova anche in una minoranza dei manoscritti greci e, quindi, Agostino (il cui forte non era certo la filologia) lo prende come base per introdurre una distinzione fra un tipo d'ira "buona", che sarebbe accettabile, e una che non lo sarebbe.
Naturalmente, in seguito, Agostino viene a conoscenza della nuova traduzione latina preparata da Gerolamo e del fatto che essa, in base ad un'indagine filologicamente piu' solida, non conteneva piu' la clausola "senza ragione". Il vescovo di Ippona torna, quindi, sulla questione nelle sue Ritrattazioni, nelle quali adotta il nuovo testo della Vulgata, ma significativamente non cambia la propria esegesi. Questa volta, Agostino si attacca al fatto che il testo dice che non ci si deve adirare "con il proprio fratello" e, di conseguenza, introduce la distinzione fra ira contro la persona, che non sarebbe accettabile, e ira contro il peccato, che invece andrebbe bene.
La prima cosa interessante da notare e' quanto il testo della Scrittura (contrariamente a molte dichiarazioni di principio) sia un fattore esegeticamente assai relativo per uno come Agostino (ma non e' il solo): il testo puo' ben cambiare, ma quello che lui vuole fargli dire di certo no. In secondo luogo, e' opportuno chiedersi come mai il vescovo di Ippona tiene tanto alla distinzione, destinata ad avere grande successo, fra ire contro il peccato e ira contro il peccatore. Ci e' molto d'aiuto Luz che osserva come una grande spinta per ammorbidire Mt 5:22 nella storia dell'esegesi venga dal fatto che si deve in qualche modo giustificare l'azione di giudizio e di punizione dei sovrani e dei governanti: se non ci si puo' piu' adirare, come possono le autorita' tutelare la legge e l'ordine? Questo e' ovviamente ben chiaro ad Agostino, come dimostrano i suoi sforzi instancabili nel portare dalla propria parte il potere imperiale nella lotta contro gli "eretici" donatisti. Il nostro vescovo ha bisogno di questa distinzione per dimostrare che il buon imperatore cristiano ammazza qualche eretico, gli brucia le chiese o lo costringe alla conversione sotto minaccia della violenza solo perche' in fondo lo ama.

sabato 5 febbraio 2011

Santi Innocenti


Uno dei piu' terribili episodi evangelici si trova nel capitolo 2 di Matteo, subito dopo la visita dei Magi al neonato Gesu'. Il racconto si e' concluso con l'adorazione e l'offerta dei doni, ma i Magi stessi hanno portato con loro i semi della tragedia, perche' hanno involontariamente messo Erode al corrente della nascita di un rivale. Nei vv. 16-18 si consuma il dramma perche' Erode, deciso a eliminare Gesu', ordina l'uccisione di tutti i bambini che abbiano due anni o meno nella zona di Betlemme: "fortunatamente" la sacra famiglia si e' gia' messa in salvo in Egitto su indicazione di un angelo apparso a Giuseppe.
L'avverbio della frase precedente e' fra virgolette perche', ad un'attenta riflessione, le implicazioni sollevate da questa storia per quanto riguarda il rapporto fra Dio e il male sono enormi. Luz, nel suo commento, dice che il problema sembra non aver nemmeno sfiorato l'autore di Matteo, ma questo e' vero solo in parte. In effetti, come molti altri eventi narrati nei primi due capitoli del Vangelo, anche questo e' accompagnato dalla sua brava citazione biblica e dalla sua "formula di compimento" (vv. 17-18). Tuttavia, se negli altri casi (per esempio, v. 15 e v. 23) la formula e' introdotta da una congiunzione finale, in questo caso abbiamo un semplice tote ("allora"), come se l'autore avvesse voluto sottolineare che l'evento e la profezia combaciano quasi in modo non voluto. Ad ogni buon conto, ha ragione Luz quando osserva che "Dio salva suo Figlio a spese di persone innocenti".
Il problema della teodicea non e' sfuggito ai commentatori e qui le soluzioni ripugnanti si sprecano. C'e' chi cerca di dare la colpa ai bambini (Giovanni Crisostomo: erano peccatori come tutti e quindi niente di male) e c'e' chi, come Gundry nel suo commento, fa scontare a questi poveretti la colpa connessa con il rifiuto di Erode e di tutti gli Ebrei di riconoscere la messianicita' di Gesu' (con il perverso collegamento fra questo passo e Mt 27:25). La soluzione piu' diffusa (e che ha dato origine anche alla commemorazione del 28 dicembre) e' pero' quella che associa i bambini alla terribile logica della morte sacrificale di Cristo: ancora Luz cita un sermone di Leone Magno che ricorda come ai Santi Innocenti sia stato concesso il (dubbio) "privilegio" di condividere la sofferenza di Cristo. Non e' nemmeno il caso di stare a spiegare quali danni abbia causato, in tempi piu' o meno recenti, il fatto di aver diffuso e coltivato questa e altre interpretazioni sacrificali delle sofferenze umane, soprattutto quando si tratta di quelle di bambini.

domenica 30 gennaio 2011

L'incipit di Matteo


Le prime due parole del Vangelo di Matteo sono, in greco, "biblos geneseos" (letteralmente "libro della genesi" di Gesu' Cristo). Fra gli studiosi c'e' disaccordo sul modo piu' opportuno di tradurre questa espressione, in particolare perche' non e' chiaro come si debba intendere il termine "genesis".
Le traduzioni italiane della Bibbia sono sorprendentemente tutte (almeno per quelle 4 o 5 che ho potuto controllare) concordi nel rendere la frase come "genealogia di Gesu' Cristo". Questa scelta presuppone che i traduttori abbiano pensato che queste prime parole si riferiscono alla sezione del primo capitolo che va dal versetto 1 al 17, nei quali, in effetti, vengono elencate la generazioni che collegano Abramo a Giuseppe, il padre putativo di Gesu'.
Tuttavia, pare strano che si parli di un "libro" a proposito di questi pochi versetti. In effetti, fra le traduzioni italiane, la vecchia Diodati ha il piu' letterale "libro della generazione di Gesu' Cristo". In questo caso, il traduttore ha evidentemente pensato che l'espressione si riferisca a tutti i "racconti dell'infanzia" che si leggono nei primi due capitoli del Vangelo e la cosa ha un senso se queste tradizioni sono pensate come una sorta di libretto autonomo che il redattore ha appiccicato all'inizio della sua narrazione.
Esiste pero' anche almeno una terza possibilita': il termine greco "genesis" sarebbe stato scelto per richiamare al lettore il primo libro della Bibbia ebraica che ha, in effetti, questo titolo nella tradizione greca. Dale Allison discute queste e altre possibilita' interpretative in un articolo recentemente ripubblicato in una raccolta di suoi studi su Matteo e nota, per le versioni inglesi, gli stessi problemi evidenziati per quelle italiane. Probabilmente non c'e' alcun modo di sapere quale era l'intenzione "originaria" dietro la scelta di queste parole, ma allora, si chiede Allison, perche' vincolarsi traducendo "genealogia", che di fatto limita radicalmente le possibilita' del lettore che ha accesso alla sola traduzione? La soluzione proposta da Allison (e abbracciata anche da Luz nella edizione inglese del suo commentario) e' quella di tradurre "libro della genesi di Gesu' Cristo".
Mi sembra che si potrebbe fare questa scelta anche per l'italiano: per una volta, quando si parla di traduzioni, ne avremmo una che ha il vantaggio di rispettare il piu' ampio ventaglio di possibilita'. In fondo "genesi" vuol dire anche "nascita" o "origine" e, per chi e' in grado di cogliere il richiamo al primo libro della Torah, essa non nasconde nulla.

domenica 9 gennaio 2011

I "re" Magi


In periodo natalizio, per evidenti motivi, ci sono piu' occasioni di essere intervistati sugli episodi relativi all'infanzia di Gesu' e sul valore "storico" di questi racconti. Proprio durante uno di questi esercizi, mi e' capitato di riflettere un po' sulla storia della visita dei Magi e sulla storia della sua interpretazione. Mt 2:1-12, fra i racconti leggendari nei Vangeli, e' di certo uno dei piu' affascinanti, ma e' notevole vedere quanto vi sia stato aggiunto dall'esegesi e dalla pieta' "popolare".
Si consideri, ad esempio, che i Magi sono spesso rappresentati come re, benche' non vi sia traccia di questo particolare in Matteo. C'e' chi sostiene che questo sviluppo "politico" sia da collegare al fatto che, fin da subito, i Magi divengono modelli di comportamento per il "vero credente". La scena dell'adorazione compare su un buon numero di sarcofagi di epoca paleocristiana, come nell'esempio qui riportato. E' interessante notare che, oltre all'oro portato dal primo, gli altri Magi non presentano i doni che ci si aspetterebbe, ma pani e altri generi alimentari. Qualcuno interpreta questo particolare come un riferimento alle elemosine che il defunto metterebbe in primo piano per dimostrare di essersi meritato la salvezza (anzi, si arriva anche ad identificare nel "titolare" del sarcofago il quarto personaggio in toga che segue il terzetto dei Magi che, invece, indossano il regolare abito persiano).


Questa sovrapposizione fra Magi e singoli credenti diventa ancor piu' interessante quando gli imperatori diventano cristiani. Fino a quel punto, il significato politico della storia era limitato alla brutta figura fatta da Erode, ma e' chiaro che, da Costantino in poi, il sovrano non puo' piu' accettare di vedersi relegato in tale, scomoda posizione. Infatti, dal IV secolo comincia a far capolino l'idea che i Magi fossero "re" e poi questo diventera' un elemento inamovibile della storia in epoca medievale. Come i Magi, il re presenta l'oro della propria corono quale offerta per il neonato Gesu'; di rimando, Gesu' garantisce al sovrano il "diritto" di regnare, proprio in virtu' di questa solenne dimostrazione di devozione.
Che i Magi siano "re" comincia ad essere oggetto di critica quando i Riformatori invitano ad essere piu' attenti a quello che c'e' davvero scritto nel Nuovo Testamento. Tuttavia, come fa notare Luz nel suo commentario a Matteo, questa e' solo un'altra dimostrazione di quanto poco impatto abbiano le decisioni esegetiche in questo campo: a tutti gli effetti, soprattutto nei paesi cattolici, i Magi sono rimasti "re" e come tali vengono rappresentati ed immaginati.

martedì 21 dicembre 2010

Segni messianici II


Pochi giorni fa ho scritto su di un mio incontro con Mt 11:2-6 in occasione di un'omelia. Subito dopo, mi sono imbattuto in questo post, dedicato allo stesso passo evangelico, sul blog "The Sacred Page" di tre professori cattolici americani. Il post e' stato scritto da Michael Barber, professore di teologia, Scrittura e pensiero cattolico all'universita' cattolica "Giovanni Paolo il grande" di San Diego.
Molto correttamente, Barber confronta il brano di Matteo con 4Q521, uno dei molti frammenti ebraici ritrovati nella quarta grotta di Qumran. Il testo, assai lacunoso, contiene un passo, molto famoso, che viene qualche volta anche indicato con il titolo di "Apocalisse messianica". Si tratta di una profezia sugli eventi che caratterizzeranno l'avvento del Messia: il dato notevole e' che l'elenco di questi prodigi messianici e' praticamente uguale a quello che si legge in Matteo 11. Ovviamente, cio' non e' casuale, ma dovuto al fatto che entrambi i testi combinano allo stesso modo due passi del profeta Isaia, tratti dai capitoli 35 e 61. Una dipendenza diretta sembra difficile, ma di certo si puo' dire che questo tipo di descrizione del Messia e delle sue attivita' circolava negli ambienti ebraici al tempo di Gesu'
Quello che mi lascia un po' perplesso e' la conseguenza che Barber trae da queste osservazioni: anche gli studiosi piu' scettici dovrebbero ammettere che la possibilita' dell'autenticita' gesuana di questi versetti e' alta. In che modo 4Q521 rafforzerebbe questa attribuzione al Gesu' storico? Barber cita il famoso commento a Matteo di Davies e Allison quale esempio di un approccio scettico. Ho voluto dare un'occhiata all'argomentazione di Davies e Allison, perche' in effetti il loro commentario e' davvero notevole (e' stato anche in gara fino all'ultimo per essere scelto come testo base per il mio corso primaverile).
Davies e Allison, alle pagine indicate da Barber, in effetti sostengono l'autenticita' delle parole di Gesu', ma ci sono due osservazioni da fare. Primo, i due non citano mai 4Q521 (il commentario e' del 1988 e io ho l'impressione - ma non ho controllato - che il frammento non fosse stato ancora pubblicato all'epoca). Secondo, uno dei motivi che induce Davies e Allison a pensare che le parole di Matteo 11 derivino dal Gesu' storico e' proprio il fatto che "stranamente" Gesu' sceglie di descrivere il Messia usando Isaia 35+61 ("perche' non ha scelto una profezia piu' mosaica"?). Davies e Allison hanno impiegato qui il criterio della discontinuita' (qualcosa puo' derivare dal Gesu' storico solo quando non puo' essere stato prodotto dall'ambiente giudaico o dalle comunita' cristiane primitive), ma Barber non si e' accorto che il criterio poteva funzionare solo quando non si sapeva nulla di 4Q521! Il frammento di Qumran, lungi dal rafforzare la storicita' di Mt 11:2-6, e' una prova fortissima contro di essa.

mercoledì 15 dicembre 2010

Segni messianici


La lettura evangelica di domenica conteneva la famosa riposta di Gesu' alla richiesta di Giovanni il Battista sull'avvento del Messia: in Matteo 11:4-5 Gesu' risponde indirettamente alla domanda facendo notare che si stanno realizzando tutta una serie di eventi miracolosi che la Bibbia ebraica associava con i tempi messianici. Di conseguenza, anche se non viene detto esplicitamente, si dovrebbe concludere che il periodo dell'attesa messianica e' finito.
Il predicatore della messa a cui ho assistito ha cominciato il suo commento con una domanda interessante: come possiamo credere che il tempo messianico si sia compiuto in Gesu' di Nazaret, se vediamo ogni giorno, non i segni elencati in Matteo, ma un mondo colpito da disgrazie e soprusi che causano sofferenza e morte anche di esseri umani innocenti? Il quesito non e' di poco conto e ammetto che ci vuole coraggio a porlo cosi' chiaramente nel contesto di un'omelia, ma la soluzione proposta mi ha lasciato un po' perplesso.
In sostanza, ha proseguito il predicatore, questa apparente assenza dei segni messianici va intesa come un richiamo alla parte che ciascuno di noi deve fare nel portare a realizzazione il regno di Dio. Come esemplificazione, ecco una storia, con la quale si e' conclusa anche l'omelia. Una famigliola torna a casa e trova l'edificio distrutto da un incendio. Mentre il padre va in paese per comprare qualche genere di prima necessita', la madre e i figli si danno da fare per ritrovare fra le ceneri qualcosa che si possa essere salvato. Viene recuperato una vaso mezzo bruciato e la madre lo riempie di splendidi fiori di campo raccolti in un prato li' vicino. Quando il padre torna e si siede a mangiare il poco che ha con la sua famiglia, vedendo la bellezza dei fiori sente rinascere in se' la speranza e l'intima convinzione che tutto andra' bene.
Ora, quando io sento un predicatore che decide di raccontare un'altra storia per spiegare la storia che ha appena letto nella Bibbia, mi preoccupo. Di solito, questo e' il segno che il "mito" (uso questa espressione in senso tecnico, visto che ho avuto occasione di parlarne recentemente) originario non e' piu' comprensibile o, meglio, non puo' piu' svolgere la sua funzione e ci si arrabatta a sostituirlo con un altro.
In questo caso, il mito apocalittico dei segni messianici pare problematico di fronte allo sfacelo del mondo contemporaneo e la soluzione trovata e' quella di ribaltare del tutto il senso del passo evangelico. Mentre Gesu' invita a prendere atto delle prove della potenza divina che trasforma il mondo, il mio predicatore mi dice che queste prove io le posso vedere solo se mi metto nella giusta predisposizione d'animo. Alla fine, la colpa e' mia perche' non mi sforzo abbastanza?

giovedì 7 gennaio 2010

La stella dei Magi

Ieri si festeggiava l'Epifania: questa festa, che tradizionalmente commemora la "manifestazione" di Gesu' salvatore al mondo, era nell'antichita' e nelle chiese orientali la principale festa del periodo "natalizio". Dopo l'introduzione del Natale, all'Epifania in occidente e' stato assegnato il ruolo di ricordare un episodio che si legge solamente nel Vangelo di Matteo, quello della visita dei "Magi" al neonato Gesu'.
Dato che l'attestazione ci viene da un solo Vangelo e dato che il racconto ha molte caratteristiche tipiche delle narrazioni favolose (i visitatori che vengono da un paese esotico, il confronto con il tiranno sanguinario, la salvezza miracolosa...), c'e' davvero poca probabilita' che si tratti di un episodio storico. Ciononostante, bisogna dire che la storia dei Magi ha avuto grande successo a livello del cristianesimo popolare e proprio per questo si e' andata arricchendo nei secoli di particolari che si cercherebbero invano nel racconto di Matteo: ad esempio, i Magi sono diventati dei re (mentre erano solo dei sacerdoti astrologi), sono diventati tre come i loro doni e hanno ricevuto anche dei nomi (Baldassarre, Melchiorre e Gaspare, nella tradizione occidentale, che ci e' piu' familiare).
Ci sarebbero molte cose da dire su questo bel racconto, ma vorrei spendere due parole sulla "stella" che avrebbe condotto i Magi in Giudea. Questo particolare ha sempre dato da pensare agli astronomi che hanno cercato di capire cosa si intendesse con la "stella" e se questo si potesse usare per stabilire la data esatta della nascita di Gesu'. Siccome il racconto non e' storico, questo ultimo obiettivo mi pare malposto: invece, e' molto interessante chiedersi cosa Matteo o la comunita' che ha creato la storia volesse esprimere ricorrendo all'astrologia. Le ipotesi si sprecano (comete, congiunzioni planetarie...), ma ieri ne ho letto una molto interessante sul blog di Michael Carden che individua il fenomeno osservato dai Magi in una congiunzione di Giove con Saturno. E' interessante osservare che questo fenomeno sarebbe stato interpretato come il segno di un grande rivolgimento politico e l'inizio di una nuova era (ovviamente positiva): negli altri momenti in cui la stessa congiunzione si era verificata nei secoli precedenti era gia' stata sfruttata da re e imperatori per la loro propaganda politica. L'applicazione a Gesu' nel Vangelo di Matteo viene da se'.
La teoria e' molto bella (come molte altre), ma puo' sempre darsi che Matteo abbia messo la stella nella storia senza tutta questa cultura astrologica, ma solo perche' e' un particolare misterioso che sta molto bene nel racconto.