venerdì 23 settembre 2011

Bartchy e la schiavitu'


Attraverso BLT, ho appreso che Ben Witherington ha reso accessibile sul suo blog un interessante paper di Scott Bartchy, professore di origini cristiane a UCLA, dedicato all'annosa questione dell'insegnamento di Paolo sul tema della schiavitu'. Il paper merita certamente una lettura, perche' l'osservazione centrale di Bartchy e' molto acuta, anche se le sue considerazioni finali sono un po' piu' discutibili.
Bartchy esamina la traduzione di un versetto della Prima lettera ai Corinzi (7:21), in cui il termine greco klesis viene reso, in molte versioni inglesi e tedesche (e anche dalla CEI), come "condizione sociale" (o perfino "occupazione" sotto l'influenza della traduzione di Lutero). Bartchy mostra in modo molto convincente che questa versione e' una costruzione moderna, perche' il greco non da' questo valore alla parola. Al contrario, la traduzione appropriata sarebbe "chiamata" o "vocazione" e quindi il versetto diventerebbe, come tradotto da Bartchy nel paper, "ciscuno rimanga nella vocazione in cui fu chiamato". Questa osservazione mette bene in luce come sia opportuno non fidarsi troppo di dizionari teologici e lessici neotestamentari, perche' anche i migliori suggeriscono spesso traduzioni "addomesticate" dalle tradizioni esegetiche o dalle esigenze teologiche (ecco perche' dico sempre agli studenti di andare a cercarsi le parole sul Liddell-Scott che spesso - ma non sempre! - e' immune da certe influenze).
Ovviamente, il versetto in questione e' molto dibattuto, perche' introduce una piccola sezione della lettera in cui Paolo da' consigli agli schiavi divenuti cristiani: sull'interpretazione di queste poche righe si gioca la fama di Paolo come sostenitore della schiavitu' o grande liberatore. Il fatto che i medesimi versetti siano stati usati tanto dagli schiavisti che dai loro oppositori dovrebbe indurre subito a dubitare della recisa conclusione che Bartchy mette nel titolo del paper ("Paolo non ha insegnato: 'Rimanete in schiavitu'"). E' certamente vero che Paolo non ha mai detto agli schiavi di opporsi alla manomissione e probabilmente (ma ne sono meno certo) non ha mai insegnato che la schiavitu' corrispondeva al piano divino o alla legge naturale, tuttavia ce ne vuole da qui per arrivare, con Bartchy, a descrivere Paolo come "un maestro che stava sfidando un'ampia gamma di convenzioni e relazioni sociali" nell'impero. Molto bene lo stesso Bartchy riassume la situazione quando dice che "Paolo non voleva che alcuno schiavo, divenuta seguace di Cristo, pensasse che il proprio status legale e sociale potesse influenzare negativamente la propria relazione con Dio". Questa era la preoccupazione: punto e basta. Quindi, "Paolo insieme a quasi tutti i suoi contemporanei apparentemente non pensava che la schiavitu' come tale potesse essere eliminata dal suo mondo".
In cosa starebbe, dunque, la differenza, per esempio, da Seneca, il precettore dell'imperatore? In cosa consisterebbe questa "sfida" alle convenzioni sociali?

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