giovedì 21 aprile 2011

Getsemani


Nell'udienza generale di ieri, il Papa, a quanto pare parlando a braccio, ha commentato brevemente la famosa scena dell'agonia nell'orto dei Getsemani in un modo molto simile a quanto fa anche nel suo recente volume su Gesu'. In particolare, rifacendosi a un passo di Marco 14:36, nel quale viene riportata la preghiera di Gesu', Ratzinger dice che "i tre testimoni hanno conservato la parola ebraica o aramaica con la quale il Signore ha parlato al Padre ... questa formula, abba', e' una forma familiare del termine padre, una forma che si usa solo in famiglia, che non si e' mai usata nei confronti di Dio". In questa affermazione praticamente tutto e' sbagliato a cominciare dalla menzione dei tre testimoni, visto che solo Marco ha la traslitterazione greca del semitico abba', mentre i paralleli (Mt 26:42 e Lc 22:42) hanno solo pater. Inoltre, come si fa notare in questo post di WIT in cui si commenta l'ultimo libro papale, l'ipotesi secondo la quale l'uso di abba' sia unico di Gesu' e sia un segno di particolare familiarita', oltre che puzzare non poco di anti-giudaismo, e' stata totalmente confutata da ricerche nemmeno tanto recenti.
Sarebbe cosa di poco conto se questa fosse un'ulteriore dimostrazione del disinteresse per la ricerca scientifica con cui Ratzinger si accosta all'esegesi. Purtroppo, temo che il problema sia piu' profondo. L'episodio dei Getsemani, dopo essere stato una vera e propria "croce" per i commentatori antichi e medievali (che difficilmente potevano accettare questo ritratto di un Gesu' "emotivo" ed indegno del divino), e' divenuto uno dei piu' amati dell'epoca moderna e contemporanea. Oggi e' facile per i lettori mettersi in relazione con il Cristo sperduto davanti alla sofferenza e all'angoscia di questa pericope. Comprensibilmente, Ratzinger batte su questo tasto nella sua omelia, ma i nodi non tardano a venire al pettine.
Gesu' prega affinche' sia allontanata da lui un "calice", ma cos'e' questo "calice"? Per Ratzinger si tratta de "l'abisso della morte, il terrore del nulla, la minaccia della sofferenza": la volonta' del "padre", che Gesu' accetta, e' che il figlio sprofondi in tutto questo. Ma quale "padre" puo' "volere" questo per suo figlio? Un "padre" a cui ci si rivolge chiamandolo "babbino"?
In realta', gia' nel 1992 in un articolo citato nel post di WIT, Mary Rose D'Angelo, professore di Nuovo Testamento alla Notre Dame University, aveva mostrato come il "padre" sulla bocca di Gesu', lungi dall'essere un vezzeggiativo, serve a rappresentare un Dio che, secondo la concezione aristotelico-stoica, sta nel cosmo come un paterfamilias o come un imperatore.
Provo a pormi, come provocazione, una domanda fondamentale. Si potrebbe amare questo Dio? Certo. Quante donne dicono di amare i mariti che le picchiano? Quanti uomini dicono di amare i sovrani che li mandano a farsi macellare in guerra? Quanti oppressi hanno accettato in silenzio e per amore ingiustizie e violenze, magari dopo aver meditato la scena dell'orto dei Getsemani? Mi sembra che ci voglia qualcosa di piu' di un'esegesi zoppicante per mandare giu' il boccone di questo Dio "padre".

11 commenti:

Tanzen ha detto...

Detto bruscamente: sì. L'esempio che hai fatto delle donne che "amano" i mariti che le picchiano tutte le sere è perfetto. Un altro potrebbe venire da quanti amano il loro paese, o il loro despota, che li invia a morte quasi certa in un conflitto.
La fedeltà ad un Dio, ad una fede, ad un ideale, ad una nazione, ad un altro essere umano è un sentimento talvolta capace di andare oltre l'amore comunemente inteso, anche di calpestarlo. E la religione fa di questa fedeltà la sua arma principale per tenere nel proprio recinto i fedeli: Dio ti ama e tu lo devi amare tanto che ti mandi il terremoto quanto che ti faccia vincere la lotteria. Lui ti ama sempre, se qualcosa va male sei sempre tu ad aver sbagliato da qualche parte perché lui - e con esso l'istituzione ecclesiastica in generale, che non può essere "sporcata" da singole macchie particolari - è Sommo e Buono; tu sei infimo e pure cattivo. Il tutto funziona fino a quanto qualcuno comincia a sperimentare un amore diverso fondato sulla parità ed il rispetto e acquisisce quella capacità critica che gli consente di desacralizzare la speculazione su Dio ponendolo sul banco degli accusati invece che sullo scranno più alto della giuria. Allora sorge spontanea la domanda che da il là ad ogni teodicea: "posso amare un Dio simile?". Il Dio cristiano, per come è presentato dalla dottrina, necessita, a mio dire, di una completa spoliazione razionale per poter essere amato. Solo rinunciando alla propria ragione, alla propria capacità critica, a voler porre domande e a cercare risposto prendendo per buona, alla lettera, la Rivelazione e l'esegesi ecclesiastica della Scrittura è possibile amarlo. Dio lo fa capire chiaramente a Giobbe: "dove eri tu quando io mettevo i pilastri della terra? Dimmelo se hai tanta scienza". Il succo del discorso divino è "non farti domande, stai zitto e fai quel che ti dicono di fare in mio nome perché, anche se non lo capisci, sappi che è sicuramente giusto". Un po' quel che accade per gli elettori di Berlusconi. Il che è tutto dire...

Anonimo ha detto...

“Provo a pormi, come provocazione, una domanda fondamentale. Si potrebbe amare questo Dio?”
Provocazione certamente corretta, ottimo Giovanni. Alla quale, però, a mio modesto parere, andrebbe aggiunta una postilla, se non la si vuole lasciare su un piano puramente etico poggiato sulle colonne diacroniche degli ultimi due secoli: “Si potrebbe amare quel Dio, in quel contesto?”. E anche bisognerebbe porsi un problema di ermeneutica: nel polarismo della simbolica biblica, qual è la volontà opposta alla quale, nel Getsemani, avrebbe dovuto Gesù adeguarsi, non volendo accettare quella del Padre?
Da simbolista, adoro l’angelo che in Luca scende nel Getsemani per fortificare Gesù. Esso non può non evocare, sia pur con una memoria intertestuale, quelli che lo servirono nel deserto delle prove di Satana. Nel polarismo della simbolica Biblica, nell’opposizione dei due Messia, ad una delle due opposte volontà occorreva adeguarsi, non esistono vie di mezzo nella logica dei contrari.
Un caro saluto, ti leggo sempre con grande interesse. Solo talvolta intervengo, per non imperversare con le mie letture dia-boliche.
Lino

Giovanni Bazzana ha detto...

Cari Tanzen e Lino (e' bello risentirti),
grazie dei vostri interessanti interventi.
Devo aggiungere che l'intera riflessione, oltre che dalla lettura delle parole di Ratzinger, e' nata da una discussione che avevo avuto con i miei studenti del corso su Matteo il giorno prima. Il punto dibattuto era proprio quello della fruibilita' di un testo come questo in mutate condizioni sociali e culturali (come rileva Lino giustamente).
E' chiaro, come dice Tanzen, che abbiamo una visione molto diversa del divino rispetto a quella di duemila anni fa (e questa e' solo la punta dell'iceberg di una ontologia e di una antropologia forse ancor piu' differenti). Adattare un testo come quello dei Getsemani alle nostre aspettative e' una sfida interessante, ma certo bisogna fare un lavoro molto piu' in profondita' e non limitarsi al giochetto delle tre carte sull'abba'.
Buona Pasqua a entrambi!

Anonimo ha detto...

Ciao Giovanni,
vorrei soffermarmi non tanto sulla interessante quanto provocatoria questione centrale del post, quanto piuttosto sul lemma abba' e sull'interpretazione che ne dai, che non mi ha del tutto convinto, o che forse non ho correttamente afferrato.
Il redattore del vangelo di Marco sembra fornire l'immagine di un Gesù fiducioso nell'intervento del Padre nella storia (cap. 4, ad esempio). Noterei però, che il Dio di questo vangelo non è il padre misericordioso di Luca. Prendiamo ad ogni modo per buono l’assunto secondo cui anche il Padre del secondo vangelo non possa essere che "buono”, anzitutto in quanto divinità, ma anche poiché prossimo a instaurare il suo regno (o la signoria del figlio dell'uomo). Lo smarrimento causato dalla imminente cattura, avrebbe però condotto Gesù a dubitare della bontà della volontà del padre. Per questo il redattore avrebbe conservato l'espressione abba'? Essa alluderebbe allo smarrimento del figlio di fronte all'agire ora incomprensibile di un Dio che verrebbe così accostato ad un padre-padrone di tradizione ellenistica? Secondo la tua ipotesi questo lemma esprimerebbe dunque una immagine del padre che, anziché intervenire a favore del figlio dell’uomo, pretenderebbe una fede incondizionata quanto incomprensibile? Pensi che l’evangelista abbia dunque conservato volutamente la contraddizione? Oppure ritieni che quell’abba’ sia indizio di una concezione “distante” della divinità soggiacente a tutto il testo di Marco? Una simile divinità, sebbene sensibilmente diversa dal “padre buono” di alcuni passaggi del vangelo (Mc 10,18) e differente dal padre degli altri vangeli, sarebbe però in continuità con il Dio di gran parte della tradizione veterotestamentaria.
Ti porrei però ancora una domanda relativa alla trasmissione di questa espressione, abba’. Cosa ipotizzi circa la sua "conservazione" ed il suo utilizzo nel contesto delle lettere paoline a Galati (4,6) e Romani (8,15)? Lì il lemma non viene accostato al Gesù agonizzante, bensì allo spirito del Cristo risorto che, secondo Paolo, vive e grida nei fedeli. Pensi che la trasmissione di questa parola aramaica sia indipendente in Marco e che il redattore del vangelo si rifaccia appunto a una tradizione completamente differente? O più in generale ritieni difficile o impossibile porre ipotesi sulla tradizione della parola e sulla relazione tra Mc e Gal-Rm?
Grazie mille dell'attenzione e un saluto,
Étienne

Giovanni Bazzana ha detto...

Caro Etienne,
grazie della tua domanda che mi induce a precisare.
La mia riflessione era solo una reazione all'interpretazione di abba' come un termine che indicherebbe una particolare intimita' e soprattutto che segnerebbe una svolta unica nella concettualizzazione del rapporto fra essere umano e divinita'. Questa esegesi non ha alcun fondamento ed e' chiaramente messa in campo per "nascondere" l'orrore di una figura paterna che esige il sangue e la morte del figlio.
Tolto di mezzo questo elemento si conclude che abba', cosi' come il greco "pater", vanno intesi come riferiti a una normale concezione patriarcale della famiglia e della divinita' modellata come un paterfamilias (che domina tutte le societa' antiche, bada bene, e non solo la "tradizione veterotestamentaria").
Se mi chiedi di espandere il campo di analisi oltre la pericope dei Getsemani, ti posso dire che mi pare che questa concezione patriarcale domini largamente la rappresentazione della divinita' in tutto il NT (anche in Mc 10:18, mentre la parabola del figliol prodigo, come tu suggerisci, potrebbe essere un'interessante eccezione). Anche i passi paolini in cui viene usato abba' non mi sembrano discostarsi: ti faccio notare che, in entrambi i casi, il contesto e' totalmente informato dalla terminologia legale dell'adozione e della manomissione degli schiavi, un contesto in cui la "salvezza" e' concepita come un "beneficio" che lega l'essere umano in un rapporto di sottomissione clientelare al patrono divino.
Ciao.

domenico ha detto...

"l'ipotesi secondo la quale l'uso di abba' sia unico di Gesu' e sia un segno di particolare familiarita', oltre che puzzare non poco di anti-giudaismo, e' stata totalmente confutata da ricerche nemmeno tanto recenti."..

1) Abba è segno di familiarità?
" that Jesus speaks to the God of Israel in everyday language and with great simplicity and directness as 'Father' demonstrates how close and familiar he is with him”.
(Luz, matthew 1-7, p.315).
"God of Israel whom he called - with scandalous familiarity - abba 'dear father'"
(H. Kung Christianity and world religions,1993, p. 324).
"Even if abba does not mean 'daddy', it does probably imply a closeness of relationship, and claimed intimacy".
(C. M. Tuckett, Christology and the New Testament, 2001, p.220).


2)Abba è unico di Gesù?

"there is no evidence in the literature of pre-Christian of first-century Palestinian Judaism that abba was used in any sense as a personal address for God by an individual - and for Jesus to address God as abba or "Father" is therefore something new".
(Joseph Fitzmyer, Abba, 1985, p.28)

"The evidence we have suggests that Jeremias's earlier view that Jesus was using a childish term is an overstatement, as he himself admitted. However, Barr's attempt to deny that the term belongs to family language is equally inappropriate. Moreover, many attempts to criticize Jeremias'use of Jewish evidence for his claim that abba is a unique feature of Jesus' prayer language are not compelling enough to overthrow his claim".
(Aquila H. I. Lee, From Messiah to Preexistent Son, 2005, p. 125)


Lee si riferisce all’uso (disinvolto) di testi giudaici tardi e di testi che invece di contenere “abba” contengono altre forme come “abbi” o di testi in cui il “padre” è quello della comunità e non del singolo.


p.s. i "tre testimoni" non sono i tre sinottici ma i tre discepoli (Pietro, Giacomo e Giovanni) che Gesù portò più vicino a sé nel Getsemani.
Così infatti Ratzinger scrive nel suo ultimo libro: "these three disciples, even though they are repeatedly overcome by sleep, are the witness of Jesus'night of anguish".
Uno può ovviamente dissentire da questa interpretazione ma non si faccia dire a Ratzinger quello che non ha detto.

Giovanni Bazzana ha detto...

Caro Domenico,
la citazione piu' divertente e' quella di Tuckett: per la serie "anche se non c'e' uno straccio di prova, il termine implica quello che serve a me per la mia costruzione dogmatica".
Possiamo dire "interdum et magnus Homerus dormitabat" cosi' salviamo la faccia anche a Ratzinger: va bene?

Comunque, c'e' una semplice prova che mostra l'inconsistenza di tutte queste opinioni: come mai Marco e Paolo han reso abba' con pater (e non con uno dei molti termini di familiarita' che sono disponibili in greco)?
Si puo' scegliere una delle tre seguenti risposte: i due autori non avevano capito cosa intendeva Gesu' (ma noi lo sappiamo), tutte le volte che qualcuno chiamava l'imperatore pater in un'epigrafe intendeva sottolineare una particolare intimita' oppure diciamo che pater ha un significato in certi casi ed un altro in altri, a seconda del nostro interesse teologico del momento (ovviamente quest'uso "disinvolto" dei testi non sara' mai permesso quando si confonda abba' con abbi!).
Saluti

P.S. Sui tre testimoni, ha ragione lei. Certo, visto che il testo dice chiaramente che i tre dormivano, questo non lo consideriamo un esempio di uso "disonvolto"...

domenico ha detto...

Prof. Bazzana con le citazioni che ho fatto mi premeva di mostrare quanto fossero un pò troppo apodittiche frasi come "ipotesi..totalmente confutata" o "ulteriore dimostrazione del disinteresse per la ricerca scientifica".
Come si può leggere studiosi di primo ordine e di diversissimo orientamento continuano a sostenere la particolarità e la familiarità di quell'abba (senza bisogno di dargli il significato di "daddy").
“In the time of Jesus very few Jews spoke to God in such a trusting, indeed intimate way; probably it was never forgotten that this was originally children language."
(G. Ludemann, Jesus After 2000 Years , 2001, p.147)
"... he used relatively intimate Aramaic word abba, which everyone used for their natural fathers too".
(M. Casey, Jesus of Nazareth: An independent historian's account of his life and teaching, 2010, p. 502)

2)Lei ha ragione prof. Bazzana: quando troviamo pater ci possiamo domandare se il termine indica un padre naturale o un imperatore o un dio proprio perchè tali usi sono tutti attestati nelle fonti. In ebraico ed aramaico abba si usa solo per i padri terreni o per una persona importante (ma le fonti sono più tarde). Mentre non è attestato l'uso di abba per Dio.
"Jesus's use fo the Aramaic term abba is still without parallel".
(M.M. Thompson, The Promise of the Father: Jesus and God in the New Testament, 2000, p.50)


3) I "tre testimoni" sono stati trovati addormentati da Gesù al suo ritorno; i vangeli non ci dicono che si siano addormentati appena Gesù si è allontanato.

Giovanni Bazzana ha detto...

Caro Domenico,
"non e' attestato l'uso di abba per Dio"?
Mary Rose D'Angelo gia' nel 1992 (!) indicava che il termine e' utilizzato in un documento qumranico (4Q372) e ora che anche il volume 36 delle DJD e' disponibile sappiamo che appare anche in 4Q460 (e questo senza contare la possibilita' di leggerlo in 4Q379 e nella perduta versione ebraica del Siracide in un paio di punti).
Questo risponde all'osservazione sugli "studiosi di primo ordine e di diversissimo orientamento": o hanno sbagliato (capita a tutti) o hanno guardato prima ai loro interessi dogmatici e poi alle loro fonti (purtroppo, ho il timore che qualche volta capiti anche questo).
Saluti.

domenico ha detto...

4Q372: "abi we lohay"
4Q460: "abi wa adoni"
Come si vede in nessuno dei due testi si trova "abba" e soprattutto è seguito da un titolo più alto per invocare Dio cosa che non avviene con la preghiera del Getsemani.

4Q379 dice "to be for me, Our Lord, like a father": come si vede c'è una similitudine e non una invocazione e c'è sempre il "Lord" presente.
Stessi discorsi per il Siracide e tutti gli altri testi: similitudini, riferimenti al padre del popolo o della comunità, in congiunzione con epiteti più alti...
Saluti prof. Bazzana.

Giovanni Bazzana ha detto...

Ok, Domenico, ho capito: "abba" (padre) e' segno di familiarita', mentre "abbi" (padre mio) no.
Mi sembra logico: argomento chiuso.
Saluti