venerdì 18 settembre 2009

Come si studia la storia della religione

La polemica sull'ormai famoso Vangelo di Giuda non si spegne mai. Alcuni giorni fa ho scoperto una nuova discussione fra Robert Eisenman e April DeConick. Eisenman, in un pirotecnico articolo (sull'Huffington Post!), ha accusato DeConick di essere una studiosa "conservatrice" perche' avrebbe tentato di "ridemonizzare Giuda", sostenendo che nel Vangelo di Giuda il protagonista non e' una figura positiva (come invece avevano affermato i primi traduttori del testo, per esempio nel famoso documentario del National Geographic). La risposta, abbastanza piccata (qui), gira tutta attorno al fatto che il lavoro storico di DeConick sarebbe "neutro" e libero da ogni interesse, di qualunque tipo esso sia.
Mi pare che la cosa vada al di la' della discussione sul Vangelo di Giuda (che personalmente trovo estremamente gonfiata, rispetto alle sue reali proporzioni) e meriti alcune riflessioni sul metodo di chi fa ricerca storica applicata a temi religiosi. Sia Eisenman che DeConick hanno cosa importanti da dire, ma, per motivi diversi, penso che entrambi sbaglino. Eisenman ha tutte le ragioni del mondo nel dire che la figura di Giuda e' stata costruita dagli autori cristiani per attaccare gli Ebrei: in questo senso e' giustissimo puntare il dito sulla piaga ed affermare che "costruzioni" teologiche di questo genere hanno giustificato e motivato per secoli le persecuzioni contro gli Ebrei. DeConick ha ragione nel dire che la ricerca non dovrebbe essere guidata da presupposti teologici, ma mi pare che sia pericolosamente superficiale affermare che si possa essere "neutri": soprattutto quando si lavora ad un certo livello, bisognerebbe essere piu' che attenti alle conseguenze delle proprie affermazioni.
D'altra parte, la prima scelta con conseguenze politiche e culturali estremamente importanti e' proprio quella del metodo. Si consideri il caso del ragionamento di Eisenman (non nuovo a formulare ipotesi che si potrebbero definire eufemisticamente strampalate): io voglio riscattare Giuda e quindi devo a ogni costo trovare nel testo del Vangelo di Giuda degli elementi positivi. Ma questo deve valere anche se poi si finisce a presentare un ragionamento forzato e chiaramente privo di prove? Mi pare che in questo modo si faccia il gioco di quelli che dicono che la storia vale tanto quanto la teologia perche' alla fine non esiste alcuna forma di oggettivita'. Io invece sarei d'accordo con la conclusione che Ms. Acocella (maltrattata non poco da Eisenman perche' non e' una specialista accademica) ha messo al suo articolo su Giuda nel New Yorker: "(Il fondamentalismo) e' un'idea infantile cosi' come l'illusione che lo si possa combattere correggendo i nostri libri sacri. Questi libri, per prima cosa, sono tanto antichi che noi comprendiamo a mala pena che cosa intendessero dire i loro autori ... In fondo, perfino i fondamentalisti non li prendono alla lettera. La gente interpreta, e imbroglia. La risposta non e' aggiustare la Bibbia, ma aggiustare noi stessi."

4 commenti:

Frances ha detto...

Questo increscioso episodio lo intepreto come il classico rimescolamento di due piani che sono e dovrebbero restare separati: il piano della ricerca e il piano della politica, religiosa e/o culturale. Non che un ti tipo di approcci simile dovrebbe incorrere in istanze di censura e di persecuzione, semplicemente non è ricerca scientifica. Già il fatto che un autore come Eisenman si lasci sfuggire accuse che niente hanno a che vedere con l'oggetto di studio, mi sembra esemplificativo della mentalità e della professionalità che alberga in certi settori accademici (a dire la verità a raggio ridotto). E infatti sembra piuttosto un fenomeno internettiano, dove negli ultimi anni dilettanti allo sbaraglio popolano la scena degli studi sul cristianesimo primitivo.
Iniziative come questo blog, ideate e curate da un professionista della materia, colmano il vuoto internettiano.

Giovanni Bazzana ha detto...

Grazie!

Anonimo ha detto...

Intervengo perché al tema di Giuda ho dedicato numerosi mesi di ricerche. Non è accaduto soltanto in Internet e negli ultimi anni, come in precedenza una commentatrice ha pontificato, che i "dilettanti allo sbaraglio" si sono interessati di questioni sul cristianesimo. Lo fece J. L. Borges, per esempio, in "Tre versioni di Giuda" e, ancor prima e meglio, se ne occupò Thomas De Quincey nel suo “Judas Iscariot”. Vogliamo definire due dei massimi scrittori e saggisti dei trascorsi secoli come dilettanti della lettura, perché non erano accademici della materia e non utilizzarono le moderne metodologie filologiche? L’ipotesi (non dimostrata) di De Quincey, però, oggi spesso e inconsapevolmente riemerge in numerose ricerche sull’Iscariota.
“They took seriously the claims in Luke and John that Judas was a demon, even the demon Satan who ruled the world”. Questo è il problema serio. Dove sta scritto, nei Vangeli, che Giuda era un demonio (nel senso ontologico) oppure un indemoniato? Allora anche Pietro (Mt 16, 23) lo fu? Si tenti di caratterizzare Giuda in termini di pensiero “secondo gli uomini” di quei tempi, secondo la concezione espressa da Pietro nell’episodio del “Vade retro” (Mt 16, 23), secondo il pensiero esposto (dal personaggio Satana stesso) nella tentazione dell’intervento degli angeli di Mt 4,5: il filo logico che connette le ricorrenze dell’appellativo “Satana” –il pensiero del mondo, il pensiero del tempo - si svilupperà allora in tutta la sua ampiezza, oltre ogni esercizio filologico classico. Si ricerchi il valore simbolico dei trenta denari, se ne consideri l’uso (l’acquisto di un campo “per la sepoltura degli stranieri”), si valuti l’irrilevanza della somma per chi gestiva una ricca borsa e – pur senza voler dare credito a Giovanni che ne afferma la disonestà - avrebbe avuto ben altre “magnifiche somme” da prelevare. Si giungerà, in tal modo, a due topoi della cultura giudaica: la richiesta dell’intervento delle “potenze divine” e il “luogo della tentazione” (Esodo 17,7). Si perverrà a una tesi molto prossima all'ipotesi “politica” di De Quincey, senza il rischio che qualche variante minoritaria di una forma verbale citata in un apparato critico marginale possa inficiarla, tanto sarà chiaro il mosaico che emergerà. Scrivo questo perché (a proposito di De Quincey) "Poetry is truer than history", qualche volta.
Chiedo scusa, professore, per essermi dilungato sul suo blog ma questa polemica tra “professionisti” e “dilettanti” – sulla quale già hai espresso un tuo oculato parere altrove - un po’ ha tediato. Così come hanno tediato le querelle tra gli autori in generale, quando le dispute tracimano sommergendo le discussioni sui testi e lasciando ben poco su cui riflettere agli studiosi (sia professionisti sia dilettanti) prossimi venturi.
Lino

Giovanni Bazzana ha detto...

Caro Lino, grazie del contributo (molto ricco e interessante, devo dire): senza dubbio la distinzione fra "accademici" e "dilettanti" e' qualche volta una ricchezza e qualche volte un problema. Per parte mia, mi sento solo di riconoscere che chi lavora oggi nell'universita' dovrebbe porsi seriamente il problema della comunicazione e dell'interazione con chi sta al di fuori. A questo proposito, per favore, non mi chiami professore.